Presentazione


Presentazione

Questo spazio è dedicato agli appunti, alle briciole di recensione irrazionali, che colgo, da lettore appassionato e spesso rapsodico, nei miei viaggi verso la lentezza e la riflessione. Briciole di recensione irrazionali dunque.

Briciole perché sono brevi, a-sistemiche, frammentarie, come un certo spirito moderno pretende. Non sono delle vere recensioni. Queste hanno uno schema e una forma ben precisa, mentre i miei sono più che altro appunti colti sul momento, associazioni d’idee, giudizi dettati dalle impressioni di un istante, da una predisposizione d'animo subitaneo, da un fischio di treno... E perciò li definisco irrazionali. Perché sfuggono da un qualsiasi schema predefinito, perché sono intermittenti, perché nella scelta di un libro, per via di una congenita voracità, spesso non seguo linee e percorsi definiti dalle letture precedenti, ma mi lascio trasportare dagli ammiccamenti o dalle smorfie di sfida che un libro sulla mensola della libreria mi lancia.

È un modo insomma di coltivare, di giocare, di prendere vanamente in giro la memoria, per conservare, catalogare e archiviare frammenti di ricordi e suggestioni che un giorno, magari, potranno farmi sorridere e, perché no, commuovere.

24 dic 2010

Il bagno di Diana - Pierre Klossowski (Saggio - 1956)

"Volendosi riposare dalla corsa, vuol vedersi mentre riposa immersa nell'onda, ma resta nondimeno aggressiva. È per uccidere che accetta di essere vista, ma nell'uccidere si concede. Ucciderà se uno sguardo la insozza, ma esalterà colui che, morente, l'avrà scorta"

Diana, la dea casta e mai concessasi, facendosi donna, accetta, narcisisticamente, di essere ammirata, di essere desiderata non solamente da sé. Contemplando il suo corpo di donna, è quasi perduta nella sua stessa sensualità. Resta, tuttavia, una dea immacolata che nell’animo conserva l’aggressività della cacciatrice. Ed è qui che risiede una contraddizione: bramosa di essere voluta, inferocita per essere stata veduta, Diana celebra la sua antinomia nell'assassinio. Tramuta il cacciatore Atteone, l’uomo, il mortale che l’aveva scrutata, che l’aveva posseduta con gli occhi, in un cervo, lasciandolo sbranare dai suoi stessi cani.
La storia di Diana e Atteone è solo il pretesto per lo scrittore francese di origine polacca di esaltare la bellezza del gioco della sensualità. Viene alla luce così una nuova mitologia la cui pretesa consiste nel svelare le spiegazioni più scabrose, le interpretazioni meno ovvie e accettate. Nell'assenza di pudicizia, sia nel mito sia nei commenti, nondimeno ci si accorge di quanta ipocrisia ci sia stata nel definire alcuni miti. L'istinto, la sensualità, il dionisiaco (ricorda Nietzsche...), la bramosia dei sensi sono stati, quasi da sempre, concepiti come mostruosi e di sicura perdizione per l'uomo. Nelle pagine di Klossowski non è così. C'è sempre un che di pensato, un che di voluto; un desiderio non represso ma giustificato e assennato.
Redatto in brevissimi ma acuti capitoli, ripercorrendo il mito di Diana e Atteone, lo scritto di Klossowski oscilla tra la prontezza delle parole e il fulgore dell’interpretazione. Lo stile è prezioso, definito, ammiccante, e in alcuni capitoletti scritti in prima persona leggiamo il pensiero di Atteone. Il saggio così si fa racconto e il lettore non può che compiacersene.

Rivisitazione moderna e provocante del mito dunque; un mito, come quasi tutto del resto, che si delizia della contraddizione. Diana, dea casta e innocente e al contempo ammiccante e lunatica, è il simbolo stesso dell’incoerenza; dei desideri dell'uomo. Un mito ambiguo insomma.

22 dic 2010

Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano - Pietro Abelardo (Saggio - 1140)

-->
"Non, come credono i più, con il piacere vergognoso e disonesto, pieno di lusinghe, della sensualità, ma con una certa tranquillità interiore dell'anima, per la quale essa rimane serena nelle circostanze felici e in quelle avverse, paga dei propri beni, senza alcun rimorso di peccato che possa tormentarla"

Al chiaro del lumicino della solitudine, il filosofo francese, in un sogno (artificio tipicamente medievale), è chiamato a giudice da tre personaggi, differenti e apparentemente molto lontani tra loro, per considerare la superiorità di una o di un'altra religione. Questi personaggi, come recita il titolo, sono un filosofo pagano, il quale non riconosce alcuna rivelazione scritta; un giudeo, di cui si apprezza la chiusura e la cocciutaggine; e un cristiano, dietro cui si vela lo stesso Abelardo. Siamo ben lontani dalla presenza tra essi di uno scettico autentico, e meno che mai di un ateo; tutti e tre, infatti, credono e venerano un unico Dio. Ciò non toglie originalità al libro.
Nel 'Dialogo', oltre ad affiorare ovviamente il pensiero, emerge il carattere e il ritratto del filosofo concettualista. Non mancano occasioni, appunto, in cui il grande pensatore medievale si definisce colto, razionale, intelligente; è, a dire il vero, sottilmente egocentrico e superbamente autocelebrativo.
Il tono del confronto tra i tre personaggi è cortese, anche se le domande, soprattutto del filosofo pagano, sono taglienti e conservano finanche un vaghissimo sentore di zolfo. Le risposte - ma è nella natura intima delle religioni... - sono sempre incerte, imprecise, lontane dalle consequenzialità della logica. Quest'ultima è macchinosamente distorta e stravolta da sofismi e da definizioni che non hanno nulla di verificabile. L'umiltà dei toni però mitiga il pensiero e tale status di approssimazione.
Come nella storia delle dispute filosofico - teologiche (almeno fino alla fine del '600), si creano alleanze. Qui, i due religiosi, in forza alla loro comune osservanza di un testo rivelato, si alleano contro il pagano. Il filosofo potrebbe scovare tutte le contraddizioni nascoste, marcarne tutte le altre palesi, con più coraggio, ma Abelardo è e resta un filosofo dall’animo cristiano. Rimane comunque un trattato coraggiosissimo per il suo tempo. In alcuni momenti pare di leggere un Pascal, un Cartesio, un Hume ante litteram. Alcune righe fanno presumere pure accenni, invero senza esplosività, di discussione sulla tolleranza che, invece, si terranno almeno cinque secoli dopo. Manca ancora la pesantezza e la gravità del problema; del resto siamo in un periodo di dominio incontrastato del pensiero cristiano…
Nel disquisire di etica e di precetti morali, la conversazione diviene filosofia morale di matrice aristotelica. Oltre a ciò, il filosofo pagano, il quale tiene in mano le redini della discussione, che pone le domande, che pone i dubbi e stimola la riflessione, mette in risalto, oltre alle assurdità di certi divieti, una dimensione erotica che è tipica del filosofo che subì l’evirazione coatta. Eppure, se nel confronto con il giudeo è il filosofo che lo incalza e lo stuzzica con le sue domande, in quello con il cristiano è quest'ultimo che pressa e provoca il filosofo.
Il confronto ha, è ovvio, un solo scopo: sottolineare la superiorità della ragione e religione cristiana. Per ottenere ciò, naturalmente, ma noiosamente, il testo è infarcito di citazioni bibliche.

Nonostante l’attualità, la vivacità, il rigore delle questioni affrontate nel ’Dialogo' abelardiano, resta un libro antiquato e ormai superato. Le logiche adottate sono figlie di un'epoca genuflessa e sottomessa alla potenza dell'ignoranza e della pavidità e non c'è scampo per le ovvie conseguenze...

12 dic 2010

Lettere d'amore alla nipote - Voltaire (Lettere - 1740/1750)

"Mi vergogno un po', alla mia età, di lasciare la filosofia e la mia solitudine per diventare il buffone del re; ma sembra ci fosse gran folla che ambiva essere rivestita di questa grande dignità, e mi è stato fatto l'onore di darmi la preferenza"

Impreziosite d’ironia, di tenerezza, di apprensione, le lettere di Voltaire a Marie-Louise, vedova Denis, sua nipote, tratteggiano un Voltaire a tratti tediato dalla mediocrità, a tratti affettuoso, a tratti ambiguo nei confronti dei potenti, combattuto tra il suo volere essere filosofo solitario e il suo desiderio di pavoneggiarsi innanzi a loro.
Madame Denis è, in tutto questo, un confessore, un’amante con cui potersi sfogare. Alcune lettere, appunto, si rivolgono a lei come se questa fosse un’amica, altre invece, lagnose, riportano il racconto di numerose brighe quotidiane. Racconta alla nipote delle sue malattie (ipocondria?), della sua insofferenza verso la vita di corte, ma sempre si legge dell’affezione sentita, vera, addirittura compassionevole quando il filosofo apprende della morte del marito della nipote.
Parecchie lettere sono scritte, soprattutto quelle legate al desiderio e all’amore, in un italiano sgrammaticato, ingenuo e quasi burocratico, eppure vi si lascia sempre trasparire la sincerità e la passione verso la nipote. E non mancano divertenti, quanto inaspettate, oscenità che alludono a una loro storia sessuale…
Importanti le note che arricchiscono le epistole alla fine del libro: raccontano da vicino gli anni del filosofo e scrittore francese durante lo scambio epistolare con madame Denis.

8 dic 2010

Le parole tra noi leggère - Lalla Romano (Romanzo - 1969)

"L'impiego rigoroso della logica - anche non sofistico - non pare accordarsi con la bontà: in quanto presume freddezza, e la si pensa al servizio dell'egoismo, della prepotenza. Ma tra il lupo e l'agnello la logica è dell'agnello, non del lupo"

Questo romanzo - che può essere definito autobiografico, psicologico, che nell'analizzare la crescita del figlio diventa romanzo di formazione - è, in una parola, poliedrico. L’io narrante è una mamma, la stessa Lalla Romano per intenderci, sottile, quasi spaventata dal confronto, attenta ai piccoli dettagli, osservatrice precisa e quasi maniacale, che racconta suo figlio, il loro rapporto conflittuale, la lotta, la differenza, l'astio, la rivolta tra i due. P., il figlio protagonista, è sin da bambino un anarchico, indisponente, contemplativo, ermetico, intelligente, svogliato, testardo, arrabbiato persino. È un personaggio soprattutto polemico, in particolare con la madre - che invece appare apprensiva, intellettuale, viscerale -, e per questo è accattivante. Definito sin da bambino poeta, filosofo, pittore, nasconde in sé tutti i modi di essere che saranno formativi e corazze coriacee contro gli altri, contro la mamma.
Nella descrizione del carattere e degli atteggiamenti del figlio, non mancano da parte dell’autrice piemontese spazi di analisi introspettiva, i quali, a loro volta, si rifletteranno sulla descrizione del figlio. E la profondità freudiana che ne deriva è brillante, carica di veemenza, esplosiva; non c'è posto per il compromesso, per la finzione. È assente del tutto, infatti, l'aspetto del gioco, della dissimulazione, mentre è solamente palese la natura intima della confessione. Si consuma così un’autobiografia viscerale, straziante quanto lucidissima.
Il racconto è zeppo di frammenti di lettere, di documenti, di pagine di diario (materiale reale, non immaginario...) che mettono in luce quanto sentita sia stata la stesura del libro; dello sfogo. Certo, alla lunga tutto ciò rischia di diventare soporifero e poco intrigante: si aspetta sempre la considerazione, il colpo di coda della mamma, ma capita spesso che tardi a venire.
Il paratesto è assolutamente invitante, ricco di spazi bianchi che lasciano intravedere d’acchito la frammentarietà moderna dell'opera, però senza alcuna dispersione. I periodi intervallati dagli spazi, infatti, non sono scollegati, tutt'altro. Evidenziano, insieme all’incedere dell’esposizione, un'attenta elaborazione, un impianto basato sulla logicità e la scientificità dei ragionamenti, insaporiti da uno stile secco e rigoroso, ma non per questo poco affascinante. E nonostante il rigore analitico, l’opera ha un che di poetico, di tenero.

Un libro che scava davvero; fulminante, spietato. Premio Strega ben meritato.

1 dic 2010

Illuminismo estremo - Michel Onfray (Saggio - 2007)

"Jean Meslier, curato ateo e anarchico; La Mettrie, medico filosofo, partigiano tragico dell'arte di godere; Helvétius, fermiere invaghito di giustizia sociale; d'Holbach, barone materialista difensore di una 'etocrazia'; Sade, marchese sfrenato. Un quintetto infernale per idee che puzzano violentemente di zolfo"

Quarto volume delle ormai celebri 'Controstoria della filosofia', segna il passaggio da una storia del pensiero laico, tenacemente critico verso la religione, al possesso pieno ed estremo dell'ateismo. Per la prima volta, tra la fine del '600 e tutto il '700, il pensiero dell’uomo si spinge verso una netta sistematizzazione dell'ateismo, precisa e organizzata, dichiarando in tal modo guerra a tutta la tradizione religiosa, cristiana soprattutto, che aveva condizionato fino allora società, pensiero e cultura. Filosofi dunque che con le loro idee hanno investito massicciamente un modo di vedere il mondo luminoso e ovattato (ma non incuriosito e coinvolto), costellato da angeli armonici e da santi felici innanzi a una divinità infinita, con i macigni del dubbio e della passione.
Con la loro critica, filosofi come il 'visionario' Meslier, il 'voluttuoso' e 'oppiomane' La Mettrie, il libertino e 'ossimorico' Maupertuis, il 'pragmatico' Helvétius, 'l'ateo virtuoso' d'Holbach e il 'fascista' Sade, hanno oscurato il vecchio e melmoso sistema filosofico, soppiantandolo con un altro ancora più luminoso, meno contraddittorio, più limpido e coraggioso... Eppure, come già sappiamo, la loro luce presto, molto presto, fu offuscata dall'ignoranza e dalla paura; e di loro e del loro pensiero ci si dimenticò alla svelta. Onfray, per fortuna, li risuscita...
Nel suo lavoro, il filosofo francese mette in luce le incoerenze dei classici pensatori illuministi (come Voltaire, Kant, Rousseau) giudicandoli pavidi e in combutta con il potere. Ma del resto anche loro sono tra i vincitori nella storia della filosofia, e non è di loro che Onfray vuole occuparsi, bensì dei vinti, degli sconfitti, dei coraggiosi e incapaci di compromessi.

Certo l’autore nella sua indagine trova dei limiti dove gli altri hanno trovato la grandezza e, viceversa, scorge la ricchezza dove gli altri hanno scovato un limite. Un ribaltamento di prospettive, sovversivo fino all'ultima frase, che alle volte può sembrare semplicistico, ma che uno stile ammiccante e crudele al contempo nasconde.

30 nov 2010

La persuasione e la rettorica - Carlo Michelstaedter (Saggio - 1913)

"Così l'uomo nella via della persuasione mantiene in ogni punto l'equilibrio della sua persona; egli non si dibatte, non ha incertezze, stanchezze, se non teme mai il dolore ma ne ha preso onestamente la persona. 'Egli lo vive in ogni punto'"

Particolarissima tesi di laurea di un giovane ventitreenne, il quale, dopo averla conclusa, si tolse drammaticamente la vita. E, forse, si potrebbe pensare che le speculazioni sull’argomento della tesi non siano del tutto estranee alla sua scelta di morte…
Con uno stile ampolloso, carico di entusiasmo giovanile, dove abbondano i richiami e le citazioni in greco, e i periodi hanno le vesti delle sentenze (sono aforistici il più delle volte e nella loro categoricità e assolutezza possono non essere apprezzabili...), questo libro non è di certo una tesi di laurea! I toni sono accesi, vivaci, sentiti, retorici.
Secondo il goriziano, la 'persuasione' è la difficilissima consapevolezza dell'uomo che la vita è anche la morte, con tutto ciò che di lacrimevole ne può derivare. La persuasione è possessione di tale cognizione, di tale dolore. La 'rettorica', invece, è la parola, la società che abbellisce e occulta la ‘persuasione’ rendendo gli uomini ciechi e fintamente felici.
Sviluppando Schopenhauer e anticipando Heidegger, il giovanissimo scrittore indica nella noia la spinta che ci porta alla coscienza di essere nel mondo: di essere soli. La ricerca del piacere da parte dell’uomo  è uno degli strumenti per vivere la vita, gli permette di cogliere anche il futuro, ciò che può piacergli o dispiacergli. Nel piacere, perciò, l'uomo vede se stesso nel presente e nel futuro. Ma la vita non è infinita, il futuro ha un limite… Non tutti gli uomini sono in grado di giungere alla persuasione di ciò che sono. È la rettorica a camuffare l'impossibilità, la difficoltà di persuasione; è il velo che copre la verità, l'essenza, per dirla scolasticamente, dell'esistenza: è la parola, la metafisica, la scienza, le relazioni e le convenzioni sociali, la tecnologia, persino lo sport... La volontà d’illusione, la ricerca del piacere, il bisogno della certezza eclissano la persuasione.
Nell'esaminare la 'rettorica', il filosofo diviene sempre più scettico, sempre più lontano dalla possibilità per l'uomo di sapere, di essere consapevole di ciò che è in realtà. Conoscere se stessi è conoscersi innanzi alla morte che noi partoriamo costantemente; e non tutti sono disposti a comprenderlo.

È in fondo una tesi sulla storia del pessimismo, su quegli autori che hanno catturato tutta la drammaticità dell'esistenza. Michelstaedter si misura soprattutto con i presocratici, Parmenide ed Empedocle su tutti, con Buddha e Gesù, con i tragediografi Sofocle ed Eschilo, con Petrarca, con Leopardi (di nascosto anche con Nietzsche), ponendo l’accento sin dalla 'Prefazione' quanto il tema della 'persuasione' fosse già stato trattato e, per via della 'rettorica', di nuovo obliato nella storia del pensiero.

24 nov 2010

Tutt'e tre - Luigi Pirandello (Racconti - 1924)

"Eh via, no: fino a questo punto, no, povero Carluccio mio! Sei stato proprio sciocchino. L'ombra, vedi, l'ombra si può calpestare: zio Florestano e la mammina tua la calpesteranno un giorno l'ombra di tuo papà sicuri di non fargli male, poiché, in vita, si saranno guardati bene dal pestargli anche un piede"

Quasi tutti i racconti narrano di tradimenti, di condivisioni, di comunanze affettive o materiali, che però hanno un che di sereno. Soltanto l'offesa della separazione può tramutarsi in vendetta, in oltraggio. Persino nelle scappatelle, negli amori poligami, alla fine, si può trovare del bene. E non è un caso che in queste storie, nel confronto tra i più agiati e gli umili, non sempre siano i primi a vincere sugli altri.
Abbiamo ancora Verga, almeno per lo stile e le atmosfere paesane e sociali, sullo sfondo. Il tema della 'roba' - tra gli altri - però si dilata e in questo processo evolutivo c'è posto per la solidarietà; come nel racconto che dà il titolo alla raccolta, 'Tutt'e tre', nel quale una madre, una sposa e un'amante, insieme, piangono il loro uomo. Non assistiamo più a un attaccamento alla materialità, ossessivo e snaturato, c’è piuttosto un sentito solidale, un sentimento di partecipazione, verso le cose e non, che nello scrittore di “Mastro don Gesualdo” non troviamo. Quindi se Verga è sull’orizzonte, lì rimane e il suo superamento è apprezzabile senza sforzo.
Una marsina stretta, due uomini che s’insultano, un prete che maledice un uomo fedifrago, una donna gigante che sposa un nano, un uomo che nel sonno ride omericamente, nel loro umorismo c'è tutta la potenza dello scrittore siciliano. Nascondersi dietro una risata appare all’autore il miglior modo per rappresentare la contraddizione, la durezza e il dramma dell'esistenza. È un gioco a nascondere, perché anche la verità si beffa di noi: si cela, a sua volta, dietro i paraventi di una situazione particolare, oppure dietro la riflessione ingenua di un bambino…
Racconti che dimostrano, rispetto ai precedenti, una maturità piena, un equilibrio quasi perfetto.

22 nov 2010

L'Altrieri - Carlo Alberto Pisani Dossi (Romanzo - 1868)

"Pensate dunque quanto se ne dovesse tenere un giovanottino fuggito appena dal materno capèzzolo, sentèndosi il favorito di un ìdolo dei meglio incensati, vedèndosi su la di lui nera mànica il più rotondo sodo avambraccio che mai portasse smaniglie!"

Dal sottotitolo 'Nero su bianco', questo scritto del prosatore lombardo è difficile da definire. Tra l'autobiografia e lo sberleffo, tra il romanzo e la raccolta di racconti, Dossi conduce il lettore nelle sue pagine, nostalgiche e al contempo umoristiche, sfruttando tutta la potenza e la sottigliezza della parola. Purtroppo la grevità dello stile e soprattutto l'ingenuità narrativa, se in un primo momento possono galvanizzare, poco dopo stancano e svincolano facilmente dalle pagine il lettore che ha bisogno di leggere soltanto una storia.
Una storia d'amore tra fanciulli, un'esperienza scolastica di un ragazzo già dedito alla malinconia e al romanticismo, i rituali di passaggio dall'infanzia all'adolescenza: questi, proustianamente ante litteram, i capitoli principali raccontati. In questo crescendo di consapevolezza e maturità, la memoria, i ricordi rappresentano il teatro entro cui la storia si sviluppa. In tutto ciò, è sentito vivamente il pensiero del ricordo; sembra che senza di esso, attuale, vivo, la vita, il presente, abbia poco senso. Non sono temi originalissimi, è indubbio; eppure riconoscere che la riflessione sia di un diciottenne, espressa e meditata in un certo stile (spontaneo a tratti, ma non per questo vago e agro), è efficace, e permette di gustare la volontà dell'autore.
Il diciottenne Dossi imbastardisce l'italiano con il dialetto lombardo e ne risulta una commistione preziosa, spesso sonora, ma, ovviamente, ne risente la fluidità della lettura. È dunque un libro, un autore da leggere solo se si ha passione per le sperimentazioni lessicali, per il bello stile, per il gioco delle ambiguità linguistiche. Un laboratorio, un’aula di ricerche e alchimie non facili da cogliere…

Parliamo d'amore - Giovanni Marchioni (Saggio - 2008)

Nessun commento.

20 nov 2010

L'uomo duplicato - José Saramago (Romanzo - 2002)

"Le quattro isole si sono unite, l'arcipelago si è ricomposto, il mare s'è franto tumultuoso contro gli scogli, se lassù ci sono state grida le hanno lanciate le sirene che cavalcavano le onde, se ci sono stati gemiti nessuno è stato di dolore, se qualcuno ha chiesto perdono, che sia stato perdonato, ora e per sempre"

Un depresso e annoiato professore di Storia, Tertuliano Máximo Alfonso, il protagonista, scopre su una VHS un attore che gli somiglia, anzi gli è identico in tutto e per tutto. Inizia perciò un’estenuante ricerca che lo porterà a trovarsi di fronte non a un sosia, bensì a una copia perfetta di se stesso. Dai nei sul braccio, alla cicatrice sotto il ginocchio, alle dimensioni del pene. Sono diversi, tuttavia, i caratteri dei due cloni; caratteri che li porteranno dapprima a una curiosità quasi morbosa, poi a uno scontro…
Gli spunti di riflessione che nascono dalle situazioni paradossali, dai ragionamenti che il narratore introietta nei protagonisti, non mancano. E la profondità con la quale sono affrontati, senza nulla di grave e faticoso da capire, arricchiscono la lettura e lo spasso nel leggere l'opera saramaghiana. In questo romanzo, in particolare, è pregevole la caratterizzazione psicologica del protagonista e il tema del doppio, seppur ormai non originale e forse esaurito nella sua potenza speculativa, si veste di abiti nuovi. Il doppio si manifesta sin dalle prime pagine; il colpo di scena è immediato e la storia vive di altre ricerche, meno scenografiche se vogliamo ma più lente nella riflessione, nel gioco tra la storia e la semantica del messaggio.
Lo stile, che si appesantisce (e abbellisce) di lunghi e sfibranti periodi ipotattici, è studiato per specchiare la volontà, la determinazione, ma anche la paura e l’esitazione del professore di Storia nel voler conoscere il suo doppio. E così si fa estenuante la preparazione dell'incontro tra i due che, solo alla fine, li porterà a battersi con il loro destino.
Siamo abituati ai paradossi, alle situazioni impossibili nei romanzi di Saramago, e questi non ci meravigliano. Idee sempre ingegnose, dense di significati rilevanti, eppure il tema del doppio, dell'identità, temi moderni e ormai classici (sic) affrontati con maestria e originalità, forse hanno già consumato il loro contenuto e la loro spinta riflessiva.

7 nov 2010

Il Risorgimento italiano - Alberto Mario Banti (Saggio - 2004)

"La lezione di Cavour è limpida; ma l'eredità del Risorgimento è ambivalente, contiene l'una e l'altra opzione, il disprezzo nei confronti della rappresentanza parlamentare e la sua valorizzazione. E [...] questa ambivalenza non è la meno importante delle eredità del Risorgimento"

Attento a tenere chiare e distinte le definizioni di 'Risorgimento', 'Nazione', 'Unità', il prof. Banti si cala nella parte dello storico di professione. Si pone delle domande, studia le fonti per trovare le risposte e, una volta trovate, le interpreta convincentemente.
Per l'autore, il Risorgimento italiano, il processo che portò l'Italia all'unità nel 1861, ebbe inizio negli anni delle vittorie napoleoniche del Triennio Repubblicano (1796 - 1799). È in questo periodo che si sono rafforzate e maturate le basi intellettuali dell’idea di Italia unita. Ma se il Triennio ha posto, soprattutto nelle persone colte, i presupposti per una discussione crepitante sull'archetipo Italia, quello austriaco della Restaurazione ha invece dato il la alle azioni concrete. Il saggio quindi - evidenziando pure le difficoltà del momento, la frammentarietà delle riflessioni e delle azioni, le spaccature profonde tra 'patrioti' e 'reazionari', tra centralisti e federalisti - passa in rassegna i moti, le guerre d’indipendenza con piglio da manuale scolastico. Resta comunque centrale in tutto il saggio, come si scriveva, il ruolo dello scontro tra le diverse posizioni e soluzioni politiche. E non poteva essere altrimenti. I dibattiti via via crescenti (contrari e non), le manifestazioni tendenti all'unità, i bisogni di significati (non per forza legati all'economia) si susseguono in un periodo in cui il pensiero, le speranze degli italiani si destano dal sonno che li ha visti disuniti. Opposizioni, dissensi, sette segrete, opere letterarie, differenze tra città e campagne, insurrezioni, dibatti sulla forma: in sintesi il processo risorgimentale che si è alla fine espresso in unità.
Il testo si chiude con una rilevante sezione dedicata ai documenti più importanti e significativi degli anni risorgimentali.
Il volume è spesso manualistico, quasi assenti le raffinatezze dei particolari che divertono il lettore; è comunque un buon libro, specialmente per rinfrescare la memoria su un momento storico che ancora oggi sembra attuale.

2 nov 2010

Pasto nudo - William Seward Burroughs (Romanzo - 1959)

"Se ne stava lì nell'ombra dell'aula del tribunale, la faccia come una pellicola strappata, stravolta dalla voglia e dalla fame di organi larvali che brulicano nell'incerta carne ectoplasmatica del tossico (dieci giorni al fresco all'epoca della Prima Udienza), carne che svanisce al primo tocco silenzioso della droga"

Frammenti di ricordi, di resoconti deformati dalle droghe, di personaggi immaginari e sfuggenti, si condensano nelle pagine senza perno di questo romanzo-cronaca delle allucinazioni di uno scrittore americano che, nelle droghe, ha cercato il senso della sua esistenza. Un senso che però non ha gravità alcuna (sebbene la "normalità" non ne abbia allo stesso modo; ma questo è un altro problema...), che precipita verso i baratri dell'assurdità, dell'apatia, dell'autodistruzione.
Testamento della 'beat generation' americana, con quel suo senso di inutilità, di nullità, di sconsideratezza, di abbandono alla vita, senza mete, di grigiore esistenziale (non descritto né, nell'intimo, pensato, ma solo superficialmente supposto...), il vorticoso racconto di Burroughs, come una foglia secca, si lascia andare alla volontà del vento degli eventi.
Non è possibile raccontare la trama del romanzo, non è nemmeno possibile capirne fino in fondo le diverse relazioni tra i personaggi; la frammentarietà, la non immediata associazione di ricordi, le strascicanti pagine dei flussi di coscienza, la deformazione del senso comune del concetto di realtà: tutto è confuso, onirico, visionario, allucinato. È, infatti, un resoconto fedele della tossicodipendenza, un resoconto contro la tossicodipendenza. E nel fondale melmoso della malattia c'è il caos dell'apatia, il subbuglio del nulla che bolle ma che non evapora.
Notevoli, per stile e crudezza, i brani, e sono diversi, che descrivono amplessi e perversioni sessuali.

In fin dei conti, un libro fastidioso, senza impulsi di riflessione particolari, volutamente caotico e per questo poco attraente; un libro della 'beat generation' che di certo farò fatica a ricordare.

28 ott 2010

La vita è sogno - Pedro Calderon de la Barca (Teatro - 1635)

"Io voglio sapere, oh Cielo, dato che mi tratti in questo modo, che delitto ho commesso contro di te nascendo; anche se comprendo quale reato ho commesso, già solo con la mia nascita. Visto che il più grande crimine dell'uomo è nascere, la tua giustizia e la tua severità hanno avuto un motivo sufficiente"

Conquista di sé, precarietà dei beni materiali, illusione del reale, impegno morale (di matrice cattolica), libero arbitrio sono i temi principali di questo classico del teatro spagnolo e mondiale. Nonostante i frequenti momenti ilari e spassosi, si avverte un onnipresente pessimismo, i cui strali si dirigono verso la miseria della vita. L'impalcatura filosofica della storia (perché, è bene sottolinearlo, le intenzioni dell’autore sono filosofiche) si regge sui terreni molli della religione. Eppure lo spagnolo ne avverte tutta la precarietà e si dimena tra contraddizioni e ambiguità, cercando di tenere l’opera su un piano il più coerentemente possibile.
La trama non è ingarbugliata. Il re Basilio, a seguito di una profezia (che, logicamente, limita la libertà umana), rinchiude il figlio Sigismondo in una torre sperduta nelle montagne di una fantasmagorica Polonia. La profezia affermava che il figlio, da grande, sarebbe stato la causa della rovina di Basilio e di tutto il regno. Prima accettandola, poi mettendola alla prova, il re affronta la rivelazione, liberando Sigismondo. E in questo gioco di scontri e confronti, tra le duplicità e le oscurità della vita, si dipanano le vicende narrate. Quando Sigismondo, in un primo momento, dimostrerà la sua malvagità (naturale e senza i filtri dell'educazione) e la verità della profezia, Basilio, addormentandolo con un veleno (topos letterario tipico nel '500 e '600), lo rinchiuderà di nuovo nella torre tra le rupi. È in questo risveglio che Sigismondo, un po' stranito, si accorge dell’oniricità dell'esistenza, del vantaggio di essere buoni piuttosto che malvagi, e quando sarà liberato nuovamente, nella paura di essere ancora in un sogno, rinuncia alla sua natura malvagia, selvaggia e vendicativa. E cambia il suo destino.
Più di tutto emerge il carattere diafano dell'esistenza, l'impossibilità e l'incapacità, a dispetto del libero arbitrio, di padroneggiare l'esistenza. Mai saremo in grado di discernere completamente la vita reale dal sogno; possiamo in qualunque momento essere ingannati.

Per l'ambiguità degli argomenti, tra il sogno e la realtà, e i grotteschi ragionamenti di Sigismondo, non mancano l'ironia e il sorriso. Allegorico, barocco nello stile e nelle intenzioni, filosofico, il capolavoro di Calderon de la Barca resta un'opera senza tempo.

24 ott 2010

Il copista - Marco Santagata (Romanzo - 2000)

"Assorbiva le sensazioni del corpo e si imbeveva delle fantasie che trascorrevano labili tra gli occhi e la mente. La corrente dei ricordi lo trascinava in una deriva nella quale si amalgamavano immagini, suoni, parole provenienti da epoche diverse della sua vita passata"

Il protagonista di questo breve e patito romanzo è un poeta sessantaquattrenne che nella seconda metà del Trecento, durante un’ordinaria giornata, sente addosso il tormento degli anni e della memoria: quel poeta è Francesco Petrarca. Ormai anziano, il "poeta laureato" vive nei ricordi, nel rimpianto di una giovinezza dedita ai piaceri, alla vanità della gloria. Il profilo del poeta toscano che emerge dalle pagine appare in un primo momento desolante e spiazzante. Petrarca, infatti, è descritto nel suo essere intrattabile, incline alla coprolalia; è descritto nella sua solitudine di uomo che attende la morte e la fama eterna. E intanto che scorre il giorno, assistiamo il poeta nei suoi pensieri, mentre compone una canzone, mentre si rammarica del figlio Giovanni morto di peste, di Laura, del fido copista Giovanni Malpaghini di Ravenna. Il copista e la canzone di Giovanni (da leggere Boccaccio) resteranno sullo sfondo per tutto il romanzo e ne saranno il leitmotiv nascosto. È dunque il resoconto di una giornata, di pensieri e ricordi; un nuovo 'Ulysses' contemporaneo.
Certo leggere di un poeta, di uno dei sommi poeti della letteratura mondiale, dedito alla flatulenza, all'incuria igienica, allo sproloquio, potrebbe far storcere il naso. Eppure, aldilà delle opere immortali, Petrarca era un uomo, e il romanzo del petrarchista Santagata ce lo restituisce in queste vesti. L’autore del ’Canzoniere’ è fatto anche di carne, di bisogni fisiologici, nonché di dubbi sul senso della vita e della religione, di ricordi, e di poesia. E si ha l'impressione, alla fine, che quest'ultima sia la condensa cremosa delle deficienze (ma lo sono davvero...?) di un uomo.
Colmo di dettagli biografici (chi li riconosce non può non sorriderne), il racconto scorre con piacere e curiosità. Con uno stile sincopato, difficilmente l'autore si lascia andare in periodi articolati, ipotattici. Il pensiero e le descrizioni quindi assumono un carattere conciso e, al contempo, spedito. Si ha la sensazione che ci sia poco spazio per la profondità (ma è un'impressione che scemerà via via). Uno stile che può in principio mettere ansia; poi, però, quando ci si abitua, quella sensazione diminuisce e si riesce ad addentrarvisi.

21 ott 2010

Il disagio della civiltà - Sigmund Freud (Saggio - 1930)

"Quando il credente si trova da ultimo costretto a parlare del 'decreto imperscrutabile' di Dio, confessa con ciò che gli è rimasta, come ultima possibilità di consolazione e fonte di piacere nella sofferenza, la sottomissione incondizionata"

Nato dalla spinta delle osservazioni di Romain Rolland su "L'avvenire di un'illusione”, questo saggio riprende le indagini sulla religione che avevano caratterizzato lo studio del 1927, per poi cimentarsi nell’analisi dell’origine dei disagi psichici nella società civile. Ed è appunto cominciando lo studio del problema del perché quel sentimento dell'assoluto, del tutto, dell'unità che tutti possiedono, e che è all'origine dell'energia religiosa (alla domanda Freud risponde facilmente che non tutti avvertono quel sentimento…), il padre della psicanalisi si spinge fino a descrivere il malessere, il violento conflitto interiore che è connaturato nell'uomo civile.
Allo stesso modo di altri filosofi, Freud pensa che l'uomo abbia un fine nella vita: perseguire la felicità. Tuttavia la nostra stessa natura è misera di momenti e stati di felicità. Non per questo non agiamo per ottenerla. La religione, in tutto ciò, è uno strumento consolatorio che, pure nelle società civili, ci illude di essere nella strada giusta, nella strada il cui capolinea è la felicità eterna. Ma come sappiamo, la religione è solo un'illusione che, oltretutto, sottomette l'uomo a meschine condizioni di sofferenza. I desideri dell'uomo, così, si scontrano contro i divieti della società, della civiltà intesa come istituzione che ci permette di regolare i rapporti tra gli uomini e ci protegge dalla natura. Dunque, se da un lato la civiltà, a differenza dello stato di natura, facilita la convivenza tra gli uomini, dall'altro può essere, ed è, veicolo del senso di colpa, di lotta tra l’Io e il Super-Io, di disturbo per la psiche dell'uomo. L’indagine del conflitto si snoda di conseguenza tra l’azione pulsionale dell'uomo, egoistica, e quella verso la società, altruistica.
Principio di piacere contro principio di realtà, dunque.
Al sesso, al godimento sessuale, forse la più forte pulsione verso la felicità, che si scontra con i tabù imposti dalla religione, è dedicato un ampio spazio. Inoltre, accanto alla tendenza amorosa, sessuale, Freud ne contrappone un'altra: l'aggressività, la pulsione di morte. La civiltà in qualche modo cerca di incanalare, di sublimare, questa energia verso obiettivi meno distruttivi. Nondimeno è pur sempre una costrizione della natura umana che spesso trova sfogo nei disturbi psichici.
Eros contro Thanatos, dunque.

Per merito di uno stile limpido e lucido, si ha l'impressione che gli argomenti trattati siano semplici, quasi ovvi, e non è difficile essere d’accordo con il padre della psicanalisi. In poche parole, un libro chiaro, intenso, acuto; illuminante.

18 ott 2010

Le lettere da Capri - Mario Soldati (Romanzo - 1954)

"Vedevo Dorothea che emergeva dall'acqua, stillante di infinite gocce che sulla sua pelle bruna parevano preziose. La vedevo di schiena, sdraiata sulla sabbia e appoggiata ad un gomito in una posa abbandonata e monumentale: ed era come se, per uno strano prodigio, avessi potuto contemplare il rovescio di una pittura famosa, un'odalisca che Delacroix aveva rappresentato di faccia"

Harry, un americano innamorato dell'Italia, vive i tumulti della dicotomia tra due, opposte per spirito e trasporto, storie d'amore e di sesso: con Jane, la moglie e madre dei suoi figli, con Dorothea, prostituta e amante romana. Ma a complicare la storia sono le lettere che Jane dedica alla sua relazione fedifraga con Aldo, un uomo, grossolano ma bellissimo, di Capri. Nello sfogo di Harry a un amico italiano di nome Mario (l’io narrante, che per buona parte del romanzo lascerà tale ruolo alle parole di Harry), al quale consegna una sincera confessione sotto forma di dattiloscritto, si legge la storia dell'adulterio nella sua prospettiva. Lo scrittore piemontese, però, trova l'espediente giusto, per mezzo di sei lettere, per dare voce anche a Jane e quindi dà l’opportunità di leggere l'adulterio in chiave femminile. Il racconto di Jane però non ha la stessa intensità e lo stesso spessore d'analisi di Harry; è meno psicologicamente intimo.
Nelle pagine, più contro la natura del cattolico che contro la natura stessa, si aggirano la perversione, il vizio; il senso di colpa. Il controcanto religioso, con i suoi occhi minacciosi e giudicanti, diventa a tratti soffocante. I personaggi ne sentono la minaccia e non riescono a fare conflagrare i loro istinti in modo risolutivo e devastante. I pensieri erotici, corrotti, aleggiano capitolo dopo capitolo. Tuttavia questa pressione divina dall'alto fa emergere le notevoli contraddizioni che i protagonisti vivono: gli sdoppiamenti, i duplici e pirandelliani atteggiamenti di fronte alle persone che dovrebbero essere più vicine. In tutto ciò, Harry potrebbe essere il modello dell'intellettuale libertino, l’uomo senza sensi di colpa né rimorsi. Vuole vivere di poco, vuole vivere seguendo le sue passioni, ma non possiede la tempra del vero filosofo edonista; non riesce a distaccarsi dal condizionamento sociale e dagl’intimi tormenti che lo assillano.
Scritto con attenzione, per fortuna, il romanzo non scade quasi mai nella convenzionalità, nel mellifluo. Sono solamente mielose le lettere di Jane ad Aldo. Qualcuna meritevole di lode, invece, sono le massime disseminate nelle pagine, che hanno la pretesa di possedere un carattere universale e capitale. Alcune di esse possono sembrare ordinarie e persino banali, altre invece sono piene, assolute, brillanti.

Storia di un matrimonio adultero, condito da erotiche pulsioni soppresse, il romanzo premio Strega di Soldati è la disgraziata manifestazione del condizionamento cristiano nelle coscienze dell'uomo. In sostanza, un bel regalo…

12 ott 2010

Le saggezze antiche - Michel Onfray (Saggio - 2006)

"La disperazione capita se abbiamo sperato, il disinganno sorge perché abbiamo atteso; lezione di saggezza: non sperare, non attendere, accontentarsi... Ogni filosofia edonistica invita a concentrarsi solo sulla modalità presente del tempo: invita a non lasciare alla nostalgia o alla proiezione nel futuro alcun potere su di sé"

Primo volume della celebre "Controstoria della filosofia", il manuale di Onfray affronta, in prospettiva laica, materialista e atea, la storia della filosofia antica fino ai filosofi edonisti dell'antica Roma.
Ovviamente - è peculiarità onfraiana l’attacco - in questo volume è preso di mira soprattutto il pensiero platonico (in verità, come sappiamo, anche negli altri volumi Platone è il bersaglio principale, se è vero che il pensiero successivo, soprattutto quello cristiano, è sempre una postilla al platonismo...) e lo contrappone alla filosofia dei cinici, dei cirenaici, degli epicureisti. Secondo Onfray, nei manuali correnti di storia della filosofia occidentale gli errori, le dimenticanze, abbondano colpevolmente. La storia è scritta dai vincitori, si sa, e nel riportare i fatti, i vinti sono occultati consapevolmente. Sicuro di questi errori, e Onfray è capace di persuadere, il francese tenta di riprendere e rivedere i 'fatti' sotto la lente dei vinti. E quindi si ricorda degli sconfitti; quei filosofi che urlano, dai loro cimiteri sepolti, vendetta. Un libro, pertanto, sui diversi pensieri alternativi a quello platonico (e dopo cristiano); un libro in cui si esalta l'edonismo.
Si legge la profonda rabbia, ma questo lo sapevamo già, nelle parole del filosofo: c'è stato un mondo filosofico brillante e acuto che è stato sommerso dal fango della gloria dei vinti. Platone, lo stoicismo, il cristianesimo hanno imposto la loro logica di disprezzo verso ciò che è più vicino alla nostra natura di esseri umani fatti di materia, di passione, di desiderio. È vero, nella feroce lotta nella quale si lancia, Onfray dimentica tutti i meriti del pensiero platonico, non cita quasi mai Aristotele, ma è in guerra. Una guerra che non ha iniziato lui, ma che è violenta e la volontà di riscatto è troppo forte per cedere alla completezza.
Chi, come me, è stato abituato a leggere i manuali di filosofia adottati nelle scuole e nelle università di certo si divertirà a leggere questo. Tantissimi particolari, alcuni non solo aneddotici ma fondamentali, ritornano in vita. Scritto con ironia, è ben dosata la retorica al pensiero. L’atrocità delle parole, oltre a ciò, colpisce fino al cervello e poi fino al cuore, come una mannaia. E il lettore ne è brutalmente attratto.

Con questo primo volume Onfray esalta quei grandissimi filosofi che oggi sono solo ricordati quali sconfitti. E così, perfino loro, hanno una piccola vendetta, un momento di gloria...

3 ott 2010

Fontamara - Ignazio Silone (Romanzo - 1933)

"Noi rifacemmo a piedi, assetati, affamati e col fiele nell'anima, la strada che al mattino avevamo percorso in camion col nostro bel stendardo di San Rocco spiegato al vento e pieni di speranze.
Arrivammo a Fontamara verso mezzanotte, in quali condizioni vi lascio immaginare. Alle tre del mattino eravamo nuovamente in piedi per andare al campo perché era cominciata la mietitura"

Libro il cui telos è morale, esprime una biografia di lotta e di sofferenza. Lo scrittore abruzzese, che aveva dedicato la vita a creare una coscienza di classe, riversa nel suo capolavoro la passione verso i più deboli. Naturalmente nel farlo, Silone non disdegna di biasimare il regime fascista, il regime oppressore e ambienta la storia nei primi anni del ventennio. Gli oppressi, quasi assuefatti dalla propria natura di ultimi, intuiscono la possibilità del riscatto, della resurrezione. Berardo Viola, il portavoce di tale momento, nella foga della passione, nell’approssimazione dell'inesperienza, diventerà il santo, il martire da adorare e da innalzare quale modello di redenzione per tutti gli oppressi. Berardo, quest'uomo senza nulla da perdere, senza terra né moglie, è l'anima, la coscienza che, seppur sonnolenta, ha incominciato a svegliarsi e a influenzare e formare i 'cafoni' suoi concittadini. Ma la velleità della sua azione, l'ingenuità del primo risveglio dopo un profondissimo sonno, è preludio di altre sconfitte. Però è solamente la sua distruzione, il suo martirio (evidente l'influenza cristiana mescolata al tema socialista) a destare definitivamente la coscienza dei Fontamaresi. E come un virus, il decoro dei 'cafoni' sarà compiuto, conquistato per mezzo del disfacimento…
Fontamara diventa il mondo dei contadini; è il simbolo di un'Italia rurale che ormai non esiste più. Ciononostante il carattere dell'ingiustizia, in un modo o in un altro, è attuale e ciò fa dell’opera un romanzo moderno. Siamo di fronte al superamento della condizione del mito dell'ostrica verghiana. Il presupposto iniziale dei 'cafoni' è identico a quello della famiglia Malavoglia, poi però l'avvento di Berardo installa nelle menti dei deboli il germe della ribellione e la speranza che un giorno non molto lontano possa essere migliore.
Scritto in prima persona, l'io narrante si divide addirittura in tre personaggi diversi: da un lato una donna, e la sua prospettiva sottolinea come tra gli stessi ultimi ci sia chi lo è maggiormente; dall'altro il marito, amico di Berardo, che assiste agli eventi quasi rassegnato e simile a un uccello marino sperduto su una città lontana dal mare; e dall'altro ancora il figlio di questi, il giovane che erediterà una coscienza più matura e che potrebbe completare la metamorfosi verso la pienezza della dignità. Stile godibile, le microstorie che descrivono il carattere dei Fontamaresi sono spesso ironiche e rilevano la semplicità di uomini che da sempre sono stati schiavi della loro condizione, piegati dal peso della Storia. Tuttavia i continui richiami ai problemi della terra (e dell’acqua) sfibrano il lettore e le pagine si allungano e si appesantiscono.

A tratti noioso, a tratti pateticamente cristiano nelle intenzioni morali, resta comunque un classico da leggere e da condividere nello spirito di rivolta contro le ingiustizie.

29 set 2010

Sidereus Nuncius - Galileo Galilei (Saggio - 1610)

"[...] perché ora, non più abbiamo un solo Pianeta rotante intorno ad un altro, mentre ambedue percorrono una grande orbita intorno al Sole, bensì quattro Stelle l'esperienza sensibile ci mostra erranti intorno a Giove, a somiglianza della Luna intorno alla Terra, mentre tutte insieme con Giove, nello spazio di 12 anni, tracciano un gran giro intorno al Sole"

Quando nei miei anni da liceale fui costretto da un'insegnante a leggere un libro, scelsi nella piccola biblioteca della scuola, e il mio assoluto delirio per l'astronomia non poteva non consigliarmi altrimenti, un libricino che non ho più potuto dimenticare. Lessi di uno scienziato famosissimo che conoscevo di fama, che aveva rivolto per primo un piccolissimo cannocchiale in cielo. Me lo immaginavo con la barba bianca (come nel celebre ritratto di Justus Sustermans), curioso, pago, mentre nelle fredde notti di un lontanissimo inverno dei primi del seicento, con una candela accesa, fogli di carta e penne d'oca, meravigliato ma non sorpreso, capiva di trovarsi innanzi a una delle più grandi scoperte che mai uomo avesse fatto.
In quegl'anni, adolescente astrofilo, pieno di idee, di speranze e di fuoco, senza conoscere il metodo osservativo dell'astronomo pisano né il suo diario che presto sarebbe diventato una pietra miliare della storia della scienza e della cultura tutta, nelle mie notti folli ed ebbre, annotavo diligentemente le mie osservazioni. Un piccolo galileiano mi sentivo...
Ma quel libro (se non ricordo male era stato edito da Einaudi nel 1976) dovetti restituirlo. Anni dopo, sfogata e travasata la passione per l'astronomia negli oceani delle lettere e della filosofia, sentì il bisogno di rileggere quel piccolo diario, di rivedere i disegni della Luna che tuttora conservano il senso di stupore che lo scienziato deve aver provato, per assaggiarvi il sapore dell'ingenuità e del curioso incanto. Stampai il libro da un sito web, lo rilessi e l'amore che nutrivo verso le pagine galileiane sconfinò. Decisi di comprarlo, di rileggerlo nella veste di un libro.
Mi ci sono voluti anni per trovarlo. E adesso, quasi fortuitamente, ho il mio 'Sidereus Nuncius’ tra le mani, il libro annunciatore di nuove e sconvolgenti verità. E nuove scoperte e ulteriori modi di vedere il mondo partorì la pagina galileiana. Basta ricordare che, per merito delle prime osservazioni con un cannocchiale, l’ipotesi copernicana divenne descrizione reale e non mera ipotesi, che la Terra e l’uomo persero definitivamente la propria centralità nel cosmo, e che s’inaugurò una nuova epoca di osservazioni astronomiche.
Prima di chiudere devo lodare in questa edizione la ricca e ben fatta introduzione di Andrea Battistini.

Un libro affascinante oltre che rivoluzionario.

27 set 2010

Don Gesualdo - AA.VV. (Saggio - 2010)

"Si trattava di furti molto innocui, in sostanza, molto innocenti, qualche grappolo d'uva nei vigneti, ma bastava questo a insegnarci il peccato. Perché in fondo l'infanzia vuole imparare, a un certo punto, che cos'è il peccato"

Libretto che correda il docufilm di Franco Battiato ‘Auguri don Gesualdo’ (mediocre e a tratti avvilente in quanto a trascuratezza registica e contenutistica), a parte due brevi interventi di Mario Sgalambro e del professor Antonio Di Grado, riporta la trascrizione degli intervistati nel video. E se, come scritto, il docufilm mostra delle dure mancanze di contenuto, traspare maggiormente il carattere approssimativo dell'opera. In verità gli interventi in sé non sono banali, anzi alcuni sono anche interessanti, sentiti, vivi nei propri ricordi, eppure hanno un che di patetico e melenso che mi lascia perplesso. Trascriverli poi, che senso ha? Un pezzo però si distingue su tutti: quello introduttivo del professor Di Grado. Coltissimo, divertente nelle sue numerose citazioni e criptocitazioni, gioca con il lettore con quel pizzico di malizia con il quale lo stesso Bufalino amava divertirsi.
Alla fine del volume si possono sfogliare molte foto (di autori vari) che ritraggono il professore di Comiso. È sempre commovente rivederle, e rivederlo nel suo viso di vecchio siciliano, nella sua magrezza da intellettuale onnivoro solo di libri, ma la carta su cui sono state stampate è riciclata e i dettagli scompaiono, il piacere subitaneo si smorza e muta in disillusione; ma dalle premesse non potevamo aspettarci di meglio...

Se Bufalino non è tra i vostri scrittori preferiti, se la sua opera non vi ha in qualche modo segnato dentro, se pure vi piace ma non sconvolge, se vi fidate del consiglio di uno che del comisano vive di una sana e insana passione, non spendete i vostri venti euro.

22 set 2010

La signora delle camelie - Alexandre Dumas (figlio) (Romanzo - 1848)

"Non s'erano mai visti a Margherita altri fiori che le camelie; così dalla signora Barjon, la sua fioraia, avevano finito col soprannominarla la 'signora delle camelie', e il soprannome le rimase"

In parte autobiografico, sembra, almeno nelle premesse, un romanzo realista. Sin dalle prime pagine, infatti, sono descritte le abitudini e gli atteggiamenti esibizionisti di un'alta borghesia che stava iniziando una discesa verso i fondali della miseria morale e intellettuale. Margherita Gautier, una cortigiana libertina, che s’innamora di Armando Duval (e per lui sarebbe stata disposta a sciogliersi dalla matassa di una vita di lusso sì ma anche di brutture e malcontento), è additata dalla società borghese con quell'indice accusatorio e viziato tipico delle società ipocrite. Fino alla fine, anche quando, per patetica generosità, decide di sacrificarsi e di ritornare alla finta vita da cortigiana…
Affresco di un periodo storico ormai lontano, nelle pieghe del mantello della Storia si celano termiti sopravvissute, che nel loro rigurgito si rivelano in fondo attuali.
Scritto in prima persona da un narratore che, scevro da pregiudizi, conosce Armando e si fa raccontare l’esasperante storia con Margherita, la vicenda possiede un'intensa e passionale forza da ottocentesco romanzo d'amore, ma rimane un che di reazionario che puzza, un olezzo di decadente romanticismo, specialmente nei dialoghi, che raccapriccia e fa prudere il naso. E se il racconto si sviluppa soprattutto nei continui dialoghi tra i diversi personaggi, in effetti sono poche le pagine descrittive, si può capire quanto il prurito sia fastidioso...
Interessanti le influenze goticheggianti che spiccano per fascinazione e incanto nell’intimo quanto macabro desiderio di Armando di rivedere Margherita da morta e già in putrefazione. La descrizione quasi foschiana della malattia di Margherita, oltretutto, mi fa pensare ancora di più a questo legame con il gotico e il decadentismo.
Un romanzo per certi versi moderno, seducente magari, ma ormai sono stanco di simili storie d'amore.

19 set 2010

La rivoluzione copernicana - Thomas S. Kuhn (Saggio - 1957)

"Che conosciamo o meno le loro teorie, siamo intellettualmente gli eredi di uomini come Copernico e Darwin. I processi fondamentali del nostro pensiero hanno da loro ricevuto nuova forma, proprio come il pensiero dei nostri figli e nipoti sarà stato riplasmato dall'opera di Einstein e di Freud"

Il saggio dello storico e filosofo della scienza statunitense evidenzia diversi aspetti della rivoluzione copernicana che non sono scontati. Pone l’accento particolarmente su come la rivoluzione di Copernico, la detronizzazione della Terra (e quindi dell'uomo) nell'economia dell'universo, abbia avuto un’importanza così grande da abbracciare non solo l'astronomia, ma anche e soprattutto aspetti scientifici e filosofici. Una rivoluzione che ha portato il pensiero occidentale a compiere quel balzo verso una più ampia conoscenza e coscienza di sé. E altresì evidenzia come tale rivolta culturale non abbia di colpo soppiantato la vecchia visione del mondo. Il processo di assimilazione, di accettazione della teoria copernicana, difatti, è stato lunghissimo e disseminato di problemi. Eppure è solo grazie a questi quesiti che grandi pensatori e scienziati hanno determinato il cambiamento e la rottura di uno schema, di un paradigma, approssimativo e imperfetto, per giungere a una più particolareggiata e reale teoria del cosmo. Kuhn sottolinea inoltre come le cause dei cambiamenti scientifici siano quasi esclusivamente interne a una ristretta comunità di scienziati, i pochi in grado di capire e di sapere studiare nei dettagli le diverse e non facili complicazioni che ogni teoria deve affrontare. Ecco uno dei motivi per cui la resistenza, nei secoli, della teoria geocentrica sia restata fortissima. Tale resistenza, ancora vigorosa dopo l’ascesa della teoria eliocentrica, è spiegata da Kuhn con quei meccanismi psicologici, che ci indurrebbero a diffidare delle novità teoriche, e con quel bisogno di sicurezza, quel profondo sospiro di sollievo che facciamo innanzi ai miracoli dell’ignoranza.
Nella parte centrale del volume, l'autore riporta lunghi passi tratti dal sovversivo 'De Rivolutionibus orbium coelestium' di Copernico, e nel farlo mostra quanto l'astronomo polacco fosse comunque legato alla tradizione, al quadro della scienza aristotelica. Un modo per continuare a sostenere che da subito non c’è stata alcuna vera e propria spaccatura tra le due grandi teorie tolemaica e copernicana.

È soprattutto un libro di storia della scienza, in particolare dell'astronomia, che scorre perfino per chi di queste materie sa ben poco.

1 set 2010

Vita di Chopin - Franz Liszt (Biografia - 1851)

"I suoi 'Preludi', i suoi 'Studi', i suoi 'Notturni', soprattutto, i suoi 'Scherzi', perfino le sue 'Sonate' e i suoi 'Concerti' - le sue composizioni più brevi, come pure le più considerevoli - spirano uno stesso genere di sensibilità, espressa in gradi diversi, modificata e variata in mille modi, sempre una ed omogenea"

Libro noiosissimo, che si abbandona a pagine e pagine di superflue e vetuste considerazioni sull'arte e sulla sua interpretazione, che si abbandona a ridondanti descrizioni sulla Polonia, sul suo carattere e sulle sue usanze, con una sintassi ampollosa, stracolma di incisi e affettata oltre ogni limite di sopportazione, per quasi tre quarti sembra scordarsi di Chopin. I primi capitoli, infatti, quasi dimenticano il geniale pianista polacco. Chopin è solo una figura sullo sfondo, opaco, indefinito; un'ombra. Poi però, dopo oltre la metà del libro, anche tra piccole imprecisioni, Liszt si rammenta del compositore amico e la lettura diventa meno lagnosa. Tuttavia lo stile non si ammorbidisce e il racconto si mantiene su toni che non hanno nulla di preciso e determinato. Le descrizioni sono aleatorie, effimere e, anche se Chopin è il paesaggio da dipingere, il quadro è appena abbozzato, senza luce. Non si raccontano nei dettagli aneddoti, quasi nessuna curiosità biografica, sparutissime le chicche; solo lunghissime e verbosissime disquisizioni sull'arte e sul carattere dei contemporanei. Attraverso le pagine dedicate a Chopin, si intravede, come in una pozzanghera, il profilo, differente ma al contempo ugualmente geniale, di Liszt, rivale ma estimatore dell'amico pianista.
I richiami colti, tipicamente di spirito ottocentesco, che riempiono il libro, l'esagerato e mieloso romanticismo, l'uso ossessivo di similitudini e di retorica irritano a dismisura il lettore impaziente che vuole conoscere di più e si aspetta di leggere altro su un pianista amato. Se si purgassero le facezie stilistiche e di contenuto, il libro si ridurrebbe a poche pagine. I demeriti del libro, però, si devono spartire tra Liszt e Carolyne Sayn Wittgenstein, scrittrice e compagna del musicista ungherese che tanto, a quanto pare, ha scritto e riveduto.

Che cosa resta di Chopin in un libro a lui dedicato: un uomo dolce, malaticcio, misantropo, poetico, preciso, solitario, aristocratico nei modi, timido, geniale; ma ciò si sapeva già...

30 ago 2010

Il giudice e il suo boia - Friedrich Dürrenmatt (Romanzo - 1952)

"La tua tesi era questa: che l'imperfezione umana, il fatto che le azioni degli altri non sono mai del tutto prevedibili e che del resto non possiamo mai, nei nostri calcoli, tener conto del caso, il quale tuttavia ha la sua parte in tutto, fosse il motivo per cui la maggior parte dei delitti vengono immancabilmente in luce. Dicevi che era una sciocchezza commettere un delitto, perché ti sembrava impossibile usare la gente come le pedine degli scacchi"

Barlach, anziano, malato e sicuro di una prossima morte (ricorda Sciascia, vero?), indaga senza grandi afflizioni d'animo sull'omicidio di un collega. Il caso, la fortuna, sembra indurre l'ispettore nella direzione investigativa giusta. Eppure questo caso, l'evento fortuito che precipita giù dal cielo quando meno te lo aspetti, si scontra con le macchinazioni investigative che il vecchio ispettore architetta contro il suo sospettato. E non è un caso che il termine 'caso' ricorra numerose volte nel racconto, a rilevare l'importanza simbolica e filosofica del metodo inquisitivo di Barlach/Dürrenmatt.
Ovviamente il racconto è ricco di dialoghi dai quali si delineano più i particolari psicologici dei personaggi che gli indizi e i sospetti sul presunto omicida. Il vecchio Barlach, ad esempio, è cauto, non ha fretta; sembra calcolare i tempi e le azioni con precisione. Oscilla tra una visione del mondo indeterminata, se non dall’accidente, e una volontà d'azione che lo porterà a calcolare ogni dettaglio per la vittoria finale. E' pure poco attento ai dettagli ma, nonostante le sue idee sull'importanza dell'imprevedibilità, è lui che si pone quale manovratore preciso e cristallino del caso stesso.

Non mancano momenti ironici, dettati soprattutto dall'ingenuità dei protagonisti, non mancano nemmeno sottili seppur acerbe riflessioni filosofiche; ma il romanzo resta un poliziesco. Un morto ammazzato, un ispettore che cerca movente e assassino, un colpo di scena finale. Sarà per dispetto verso certi meccanismi che il poliziesco innesca nella mia mente, sarà perché mi divertono le riflessioni letterarie meno ambigue, più di parte, sarà perché in un romanzo cerco schemi d'intelligenza non solo evasiva, ma questo genere letterario non mi appassiona e stuzzica...

28 ago 2010

L'avvenire di un'illusione - Sigmund Freud (Saggio - 1927)

"Queste [le rappresentazioni religiose], che si presentano come assiomi, non sono sedimenti dell'esperienza o risultati finali del pensiero, sono illusioni, appagamenti dei desideri più antichi, più forti, più pressanti dell'umanità; il segreto della loro forza è la forza di questi desideri"

Al di là di ciò che si pensi della psicanalisi e di Freud, questo saggio, in qualche modo un'appendice che completa 'Totem e tabù', è un piacere leggerlo. L'estrema chiarezza linguistica è espressiva della perfetta padronanza delle sue idee.
In questo breve scritto, Freud si pone delle domande di un’indubbia rilevanza: cos'è la civiltà? quali regole comportamentali la tengono in vita? e soprattutto, la religione che ruolo gioca all'interno di questa forza che ci unisce e ci spinge verso il futuro? Dalla discussione di tali domande, lo scopritore della sessualità infantile ci indica un futuro meno miope, più illuminato, in cui le ragioni e le scoperte scientifiche soppianteranno del tutto il bisogno religioso che ottunde le menti dell'umanità. La religione, l'illusione nella definizione freudiana, sarà costretta a cedere il passo alla verità. Siamo pertanto di fronte a una civiltà che nell'idea del moravo, molto adagio, muta e si perfeziona. La conclusione di siffatta lenta evoluzione risiede nell'inevitabile (e da tempo in atto) conflitto tra intelletto e vita pulsionale, che alla lunga porterà il primo, con la sua caratterizzante pazienza, a prevalere sulla seconda, sulle illusioni, sulla religione. Nel difendere la superiorità delle possibili illusioni scientifiche su quelle religiose, Freud ci lascia qualche breve ma denso appunto di epistemologia.
Curiosa la capacità dell’autore de ‘L’interpretazione dei sogni’ di prevenire le possibili critiche, anticipandole e confutandole nel testo stesso. Nel farlo, Freud si pone di fronte a un obiettore immaginario e risponde alle sue contestazioni. I dialoghi che ne seguono sono notevoli per brillantezza e onestà intellettuale. Per i temi trattati e il modo di proporli, nel cercare le cause del bisogno di rivolgersi ad altro, a divinità superiori, a tratti sembra di leggere Hume o Feuerbach.

Libro illuminista, ottimista, sicuro, annuncia l'inesorabile sconfitta delle religioni dopo le vittorie della ragione, della scienza. Libro profetico o libro di speranze? E' ancora troppo presto per giudicarlo, restano però una forza e un'integrità razionale che difficilmente potranno essere trascurate.

26 ago 2010

L'inconveniente di essere nati - Emile Michel Cioran (Aforismi - 1973)

"Non ho ucciso nessuno, ho fatto di più: ho ucciso il Possibile e, proprio come Macbeth, ciò di cui ho più bisogno è pregare, ma, proprio come lui, non posso dire 'Amen'"

Pensieri notturni, frutti d'insonnie e di incubi angoscianti, gli aforismi di Cioran, scrittore e filosofo profondo e pregevole, denunciano l'insensatezza dell'esistenza con il rigore maniacale dell'estremo pessimismo. L'avversione verso tutto, verso soprattutto l'inutilità, è l'ovvia repulsione verso la vita dell'uomo. L'uomo, infatti, è per il filosofo apolide l'emblema dell'inconcludenza estrema, del non senso. Ma anche Cioran stesso è uomo, e anche lui, in una confessione violenta e drammatica, è vittima dei suoi stessi strali.
L'esistenza, dunque, con tutte le sue sfumature, è al centro di questo capolavoro filosofico e letterario. Questo concetto, dietro cui s’identifica l'uomo e la sua natura, è vivisezionato con freddezza disincantata e terrificante. Ogni suo aspetto, dalla nascita alla morte, dalle passioni agli incontri con altre esistenze, è scomposto e destrutturato al fine di rendere la totalità, l'uomo, un niente nell'universo. Già il titolo annuncia la soluzione al malcontento sommo dell'autore. Accodandosi a una tradizione antica, l'antidoto alla miseria della vita sarebbe stato nel preferire al nascere il non nascere, al vivere il morire, alla consapevolezza l'ignoranza. Il pessimismo rivelato è talmente massimo che porta all'immobilismo, a una forma di pirronismo etico, oggi, inattuale e fuori moda. Un libro quindi contro il più potente dei sensi comuni, contro l'oppiaceo valore supremo della vita.
Dietro tutto ciò si avverte un forte richiamo nietzschiano all'insegnamento buddhista sulla vita come dolore, da contrapporre a quello cristiano di speranza e illusione.
Molti aforismi sono belli da leggere perché prendono spunto da momenti quotidiani e intimi del filosofo. Istanti che folgorano, intuizioni che s'impressionano nelle pietre. Alcuni invece, ma pochissimi, seppur nella loro tragicità, sono ironici e stordiscono per la loro esiguità.

Un libro stupendo, un libro fuori tempo che molti non possono leggere e apprezzare. Un libro per chi nella vita, in estrema sintesi, vede e scova solo insensatezza e vacuità.

24 ago 2010

Il fantasma dell'Opera - Gaston Leroux (Romanzo - 1911)

"Le pareti erano tutte parate di nero, ma al posto dei finimenti bianchi che di solito completano quel funebre ornamento, spiccavano su un enorme pentagramma le note ripetute del 'Dies Irae'. Al centro della camera c'era un baldacchino da cui ricadevano tendaggi di broccato rosso e, sotto il baldacchino, una bara aperta"

Il romanzo di Leroux sembra una rivisitazione in chiave moderna dell'antico mito di Orfeo. Sono numerosi i punti in comune tra il romanzo e il mito della catabasi di Orfeo negl'Inferi. Entrambi, Orfeo ed Erik, sono musicisti, entrambi innamorati, entrambi, alla fine, perdenti. E inoltre non si può non scrivere che in comune, tra l'altro, leggiamo della discesa verso un luogo sotterraneo. Si potrebbe riscrivere il titolo: 'Il fantasma dell'Opera, ovvero l'Orfeo moderno'; come nel 'Frankenstein' della Shelley la rilettura del mito di Prometeo.
La storia assume vivaci tratti polizieschi. Chi è il fantasma dell'Opera? Chi è l’artefice delle stranezze e dei delitti del teatro? Sembra questa domanda il motore del romanzo. E nella ricerca di una risposta, amore e terrore si mescolano fino a esplodere e a esaurirsi in una storia ricca di fascino, ma anche d’insipidezza emozionale e stilistica.
La lettura è appesantita dalla presenza di una caterva di personaggi secondari (almeno nella prima parte della storia) e di piccoli particolari legati al mondo dell'Opera, che se da una parte presentano il racconto minuzioso e nelle intenzioni dell'autore veritiero, dall'altra, forse, resta un po' eccessivo e dispendioso. Pregevoli invece le descrizioni claustrofobiche e goticheggianti dei luoghi del fantasma, del sotterraneo del teatro.
Importante, seppur non originalissima, l'idea della musica quale origine assoluta dell'incanto. Nel capolavoro di Leroux è la musica, infatti, che ammalia, che sconquassa e restituisce personaggi credibili e ormai classici. Christine Daaé, l'eroina, è in balia della seduzione della musica, della straordinaria potenza che esercita su di lei. La musica è potere. Chi ne sa dominare gli arcani è in grado di affascinare: è appunto in grado di dominare. E Christine è posseduta dalle suadenze della musica, ma non è lei che la domina, lei è la vittima, la prigioniera. Il burattinaio, l'ideatore di tutto, è il misterioso fantasma, angelo e mostro, che si rintana tra gli angoli bui e i palchi del teatro dell'Opera. Passioni, cecità, profondità; non vi sembra che in queste parole chiave si annidi una metafora?
Purtroppo è inevitabile che la conoscenza, seppur indiretta, di un classico come questo influenzi la lettura e la non-scoperta e sorpresa degli eventi narrati. Resta il fascino del classico, è vero, ma alcuni limiti della storia (uno su tutti la prolissità) di certo non lo pongono sullo stesso gradino di altri classici del genere.

Definibile come romanzo popolare, come romanzo grandguignolesco, per me resta nella sostanza un romanzo poliziesco ed è probabile che per questo non mi abbia conquistato.

6 ago 2010

La camera chiara - Roland Barthes (Saggio - 1980)

"Dovevo penetrare maggiormente dentro di me per trovare l'evidenza della Fotografia, quella cosa che è vista da chiunque guardi una foto, e che la distingue ai suoi occhi da ogni altra immagine. Io dovevo fare la mia palinodia"

Le riflessioni e le digressioni sulla fotografia, sul suo senso ontologico, la ricerca fenomenologica che diventa introspettiva, sono quasi un pretesto per Barthes di parlare di sé. La Fotografia, nella spiegazione barthesiana, è disordine, è emblema dell'assoluto particolare. Compito del critico francese è quindi quello di darne un significato, partendo proprio dal particolare, da singole foto scelte da lui per il loro valore affettivo ed emotivo. Tra scienza e soggettività dunque. E', come si diceva poc'anzi, l’onesto espediente per sviscerare la sua stessa natura di soggetto in posa, nel caso in cui è 'immortalato' (lo 'spectrum'), o per sviscerare la sua stessa natura di soggetto fruitore di foto altrui (lo 'spectator'). Barthes non è un fotografo (lo 'operator'), ma della fotografia ne subisce il fascino, la spietatezza dell'invadenza, il disordine ossimorico insito nell’universo delle foto. Da critico sottile e raffinato qual era, non poteva pertanto non considerare le ragioni di tale invadenza e per farlo mette a nudo anche suoi ricordi intimi, in un crescendo pure emotivo che rende il libro un piccolo gioiello saggistico.
La digressione, specialmente nella seconda parte del volume, assume un carattere quasi proustiano. Ne sono prova non solo i continui rimandi personali alla figura (e alle foto) della madre, ma anche alla 'Recherche' dello scrittore francese.

Del libretto, corredato da bellissime foto e dal solito e inequivocabile paratesto barthesiano, mi piace l’afflato personale dell'autore. E' attraverso l'esperienza di utilizzatore di foto, non di tecnico della fotografia, che lascia parlare le sue emozioni. Ma tale soggettività non deve ingannare il lettore; il procedimento fenomenologico di Barthes si conclude con valutazioni che possiedono un loro status universalistico e, in qualche modo, obiettivo.
Del resto l'estetica della fotografia deve, per forza di cose, rimandare al singolo.

2 ago 2010

Le mie prigioni - Silvio Pellico (Memorie - 1832)

"Vedendo sì di rado creature umane, diedi retta ad alcune formiche che venivano sulla mia finestra, le cibai sontuosamente, quelle andarono a chiamare un esercito di compagne, e la finestra fu piena di siffatti animali. Diedi parimenti retta ad un bel ragno che tappezzava una delle mie pareti. Cibai questo con moscerini e zanzare, e mi si amicò sino a venirmi sul letto e sulla mano e prendere la preda dalle mie dita"

Negli anni della Restaurazione, negli anni dei moti per la libertà, un uomo, tra i moltissimi, fu costretto al carcere per circa dieci anni. Era il 13 ottobre 1820 quando fu arrestato a Milano, l'1 agosto 1830 quando fu scarcerato a Spielberg; un’eternità. Dieci anni dunque, dieci anni di desideri, di ricordi, di sofferenze, di noie, di speculazioni, di immaginazione. Quell'uomo, l'autore già celebre della "Francesca da Rimini", in uno sfogo appassionato e romantico, rovesciò nelle pagine di quello che sarebbe divenuto il suo capolavoro tutta l'amarezza della prigionia e tutto il coraggio dettato dalla fede. La cronaca diviene a tratti meticolosa, la sottile denuncia politica antiaustriaca è con acutezza celata e il carattere memorialistico dell'opera, nonostante le ovvie modestie delle vicende narrate, incuriosiscono. Pregevole per l'epoca l'analisi introspettiva, e la scoperta del valore del dubbio, delle debolezze umane sono apprezzabili appigli da cui iniziare le riflessioni.
Pellico ha diversi problemi da affrontare nei durissimi anni di carcere. Alcuni sono ordinari e quasi ridicoli (ma curiosi e dilettevoli, come ad esempio il problema delle zanzare o del caldo), altri invece sono più viscidi e logoranti. Ma il piemontese ha delle armi con sé: le speculazioni filosofiche, i ricordi, l'immaginazione sono potenti, ma alle volte insufficienti, per combattere le stanchezze del tempo e le noie della solitudine.
Purtroppo gli eccessivi richiami alla fede e alla religione, il fortissimo spirito religioso, disturbano non poco chi non vede in esse le sole ragioni di consolazione e di senso. L’anima romantica dell'autore, che oggi quasi non impietosisce, alla lunga distrae, mentre i grotteschi sospiri, le lamentele e i pianti determinano un insopportabile senso di nausea.

Alla luce di quanto scritto, mi viene in mente una domanda. Ha senso oggi leggere un'opera del genere? Il capolavoro dello scrittore piemontese è dunque attuale? Ritengo che si possa ancora adesso leggere e apprezzare non solo come documento storico, come affresco del sentire di un'epoca di lotte e di aspirazioni di libertà (per questi motivi si potrebbe leggere pure dell'altro...), ma come opera realmente fresca perché è dell'uomo, in fondo, che si parla: delle sue paure, delle sue angosce, dei suoi dubbi, delle sue sconfitte, delle sue vittorie; perché anche ora si cerca e si perseguita un'idea di libertà.

30 lug 2010

Se questo è un uomo - Primo Levi (Romanzo - 1947)

"Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero"

Nato dalla necessità di raccontare l'estremo, l'infinito, "Se questo è un uomo" è la storia di un viaggio: un cammino lento e spietato verso la discesa, verso le profondità del male; di una catabasi. L'ordine quasi scientifico con cui è presentata l'odissea dell'io narrante, di Primo Levi, dovuta probabilmente alla formazione scientifica dell'autore stesso, sonda con un potente faro le volute e le contorsioni ambigue della rassegnazione. In questo approdo di nullità e rinuncia c'è l'uomo nella propria essenza, nella propria innata malvagità. L'analisi scientifica delle emozioni (o meglio dell’assenza delle emozioni), insieme alle descrizioni crude dei luoghi e dei diversi momenti di una giornata da deportato, sono oltremodo trascinanti e con difficoltà, seppur con sdegno, si sente il bisogno di non abbandonare la lettura.
Romanzo pedagogico, storico, esistenziale, del terrore, è la cronaca personale di un evento che oggi, forse, sentiamo lontano nel tempo. Gli orrori dei Lager sono il simbolo della naturale perfidia umana, portata al limite della sua ferocia. Il Lager quindi: l'espressione finale della coerenza logica quale archetipo della follia divenuta perfetta nella sua consequenzialità (è bene chiarire che, da parte mia, non è questa tensione a dover essere biasimata bensì i presupposti che vi stanno alla base...).
La testimonianza diretta non può non coinvolgere e provocare riflessioni sulla natura dell'uomo e sulla pericolosità, se non emendate dal buon senso, della ragione e della passione. Il libro quindi si fa documento storico e allo stesso tempo monito per la memoria e per l’uomo e il buon senso.

E' un romanzo che tutti, almeno una volta, dovrebbero leggere. Consiglierei l'obbligatorietà della lettura nelle scuole.

Archivio blog