Presentazione


Presentazione

Questo spazio è dedicato agli appunti, alle briciole di recensione irrazionali, che colgo, da lettore appassionato e spesso rapsodico, nei miei viaggi verso la lentezza e la riflessione. Briciole di recensione irrazionali dunque.

Briciole perché sono brevi, a-sistemiche, frammentarie, come un certo spirito moderno pretende. Non sono delle vere recensioni. Queste hanno uno schema e una forma ben precisa, mentre i miei sono più che altro appunti colti sul momento, associazioni d’idee, giudizi dettati dalle impressioni di un istante, da una predisposizione d'animo subitaneo, da un fischio di treno... E perciò li definisco irrazionali. Perché sfuggono da un qualsiasi schema predefinito, perché sono intermittenti, perché nella scelta di un libro, per via di una congenita voracità, spesso non seguo linee e percorsi definiti dalle letture precedenti, ma mi lascio trasportare dagli ammiccamenti o dalle smorfie di sfida che un libro sulla mensola della libreria mi lancia.

È un modo insomma di coltivare, di giocare, di prendere vanamente in giro la memoria, per conservare, catalogare e archiviare frammenti di ricordi e suggestioni che un giorno, magari, potranno farmi sorridere e, perché no, commuovere.

30 lug 2010

Se questo è un uomo - Primo Levi (Romanzo - 1947)

"Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero"

Nato dalla necessità di raccontare l'estremo, l'infinito, "Se questo è un uomo" è la storia di un viaggio: un cammino lento e spietato verso la discesa, verso le profondità del male; di una catabasi. L'ordine quasi scientifico con cui è presentata l'odissea dell'io narrante, di Primo Levi, dovuta probabilmente alla formazione scientifica dell'autore stesso, sonda con un potente faro le volute e le contorsioni ambigue della rassegnazione. In questo approdo di nullità e rinuncia c'è l'uomo nella propria essenza, nella propria innata malvagità. L'analisi scientifica delle emozioni (o meglio dell’assenza delle emozioni), insieme alle descrizioni crude dei luoghi e dei diversi momenti di una giornata da deportato, sono oltremodo trascinanti e con difficoltà, seppur con sdegno, si sente il bisogno di non abbandonare la lettura.
Romanzo pedagogico, storico, esistenziale, del terrore, è la cronaca personale di un evento che oggi, forse, sentiamo lontano nel tempo. Gli orrori dei Lager sono il simbolo della naturale perfidia umana, portata al limite della sua ferocia. Il Lager quindi: l'espressione finale della coerenza logica quale archetipo della follia divenuta perfetta nella sua consequenzialità (è bene chiarire che, da parte mia, non è questa tensione a dover essere biasimata bensì i presupposti che vi stanno alla base...).
La testimonianza diretta non può non coinvolgere e provocare riflessioni sulla natura dell'uomo e sulla pericolosità, se non emendate dal buon senso, della ragione e della passione. Il libro quindi si fa documento storico e allo stesso tempo monito per la memoria e per l’uomo e il buon senso.

E' un romanzo che tutti, almeno una volta, dovrebbero leggere. Consiglierei l'obbligatorietà della lettura nelle scuole.

26 lug 2010

Il fiele ibleo - Gesualdo Bufalino (Saggi - 1995)

"Si sa quanto sia difficile, di una donna, intendere i lineamenti segreti, i crocicchi dei nervi, le maree degli umori, le impronte digitali dell'anima. E quanto sia ancora più difficile penetrarne veramente il corpo, al di là d'una effimera presunzione di possesso carnale. Lo stesso accade con la donna Sicilia, volta a volta una medusa che impietra e una 'Mater dolorosa' trafitta al cuore da sette pugnali. Forse così converrebbe che un pittore la ritraesse: una Madonna Erinni, con un'aureola sul capo e, sotto la cuffia azzurra, cento viperette nascoste..."

Della Sicilia e dei siciliani non mancano meravigliose descrizioni, profonde analisi sociali, coraggiosi affronti e contraddittori spergiuri. C'è chi li ha amati, chi invece li ha odiati, chi li ha fraintesi (li giustifichiamo però, l’incoerenza è nel carattere stesso della Sicilia). Eppure, in questo assedio d’emozioni, difficilmente si è riuscito a carpire un senso univoco (che non c'è, lo sappiamo tutti) dell'isola e dei suoi isolani. Forestieri o isolani che siano, nei loro occhi ingannati dalla natura selvaggia e atroce della luce, trovare il momento di sintesi è tutt'altro che facile. Lo abbiamo scritto poche righe sopra: la Sicilia è terra di contraddizioni, di antitesi, di ossimori; è questo il senso... Sempre uguale e sempre diversa, affabile e scontrosa a un tempo, virtuosa e insieme viziosa, blasfema e religiosissima, feroce e misericordiosa...
"Il fiele ibleo" (per chi siciliano non è o per chi non conosce Virgilio, il titolo è ossimorico, come a dire "amaro miele"...) è un’appendice de "La luce e il lutto" (da notare anche qui l'ossimoro); una raccolta di scritti dedicati alla Sicilia qualche anno prima. La Sicilia e i siciliani dunque.
Con uno stile unico e suadente, nella selva di coltissime criptocitazioni sparpagliate qua e là sapientemente come semi sui campi, tra le emozioni suscitate dall'accostamento delle parole e i sensi generali che esse sprigionano nella mente e nel cuore, la Sicilia, quest'isola d'eccessi, è pennellata magistralmente dallo scrittore comisano. Si avverte la profondità smisurata dei sentimenti dello scrittore; in fondo si sente egli stesso la Sicilia, e dell'isola parla come se stesse scrivendo un romanzo autobiografico.
Nelle sue divagazioni, spesso Bufalino incontra e commenta foto e fotografi che l'isola l'hanno immortalata. Ma una grossa fetta di saggi e articoli è dedicata al suo grande amico, intimamente siciliano quanto lui, Leonardo Sciascia. Commoventi, quasi fino alle lacrime, i ricordi del comisano sul racalmutese. Amici elettivi lo erano davvero e la scomparsa di Sciascia non poteva non toccare la memoria di uno scrittore che di questa ne ha fatto una ragione di vita.

Forse perché come uomo avverto la mia naturale contraddizione d'essere, forse perché anche il dettaglio d'un'emozione può diventare universale, o forse più semplicemente perché sono siciliano anch'io, credo che le istruzioni bufaliniane per l'uso della Sicilia siano da leggere e rileggere fino a impararle a memoria.

24 lug 2010

Novelle rusticane - Giovanni Verga (Racconti - 1882)

"Invano Lentini, e Francofonte, e Paternò, cercano di arrampicarsi come pecore sbrancate sulle prime colline che scappano dalla pianura, e si circondano di aranceti, di vigne, di orti sempre verdi; la malaria acchiappa gli abitanti per le vie spopolate, e li inchioda dinanzi agli usci delle case scalcinate dal sole, tremanti di febbre sotto il pastrano, e con tutte le coperte del letto sulle spalle"

I siciliani, lo sanno tutti, sono per carattere eccessivi, esuberanti, estremi; ad esempio: o parlano per non lasciare parlare gli altri oppure sono talmente silenziosi da sembrare scorbutici. Nessuna via di mezzo dunque, radicali; come lo scirocco di luglio, implacabile, assassino, micidiale. Persino in fatto economico gli isolani lo erano (lo sono?): o poverissimi o ricchissimi. Nelle novelle verghiane, in generale, questa definizione dell'eccesso siciliano trova un'altissima intensità. Ci sono personaggi nati poverissimi che, sovente con l'inganno, riescono a ribaltare il loro punto d'esagerazione nel suo opposto. Diventano ricchissimi o si arrogano il diritto di definirsi più forti e quindi più importanti e superiori. E' inesorabile però la sconfitta dei rivoluzionari, di quelli che pretendono e vogliono cambiare, nel bene e nel male, il loro stato sociale; da che mondo è mondo, da che Sicilia è Sicilia, sono sempre i più deboli a essere sconfitti.
In un eccesso o in un altro, i personaggi rusticani non conoscono serenità. Lottano sempre per il possesso, l'avarizia, la “roba"; insomma parlano o stanno in perenne silenzio. Il pessimismo verghiano è il pessimismo dei siciliani. E' un pessimismo modellato sull'ossimoro, sulla contraddizione, su spinte opposte che insieme si annullano e immobilizzano l'azione e il pensiero. L'impotenza è, infatti, la peculiarità dei racconti. Alla fine tutte le speranze, i sogni, i sacrifici crollano e si sfracellano sui terreni duri e bruciati delle campagne di provincia.
Suonano molto bene, per me che sono siciliano, alcune espressioni e alcune costruzioni sintattiche del dialetto. Ma, in uno stile un po' prolisso, i temi e le situazioni narrate sono sempre simili; mancano di un pizzico d’inventiva e si trascinano claudicanti pagina dopo pagina. L'intertestualità nell'ultimo racconto, "Di là del mare", in cui luoghi e personaggi si ritrovano nominati, suggellano la raccolta e ne danno un senso unitario.

Dello scrittore catanese preferisco a queste novelle, di gran lunga, "Vita dei campi".

20 lug 2010

Pirandello e il pirandellismo - Leonardo Sciascia (Saggio - 1953)

"Perché è la vita nei paesi, il sentirsi costantemente riflesso e giudicato negli altri, che dà al siciliano quella spietata voglia di frugarsi dentro, di ridurre la propria anima a un solitario, morboso e diabolico 'passatempo': il gioco di carte della solitudine, il compiacimento disperato di sfuggire agli altri, di far per gli altri carte false pur conoscendo spietatamente le vere"

Sciascia amava Pirandello, si sa. E in questi cinque saggi il racalmutese, oltre a dimostrarne la passione, gli fa onore.
Valutando l'importanza di Pirandello, attento alla storia, coltissimo, accorto lettore, alla luce delle critiche crociane e non, Sciascia diventa un paladino della giustizia contro chi vide nello scrittore agrigentino un fenomeno di moda, effimero. Nei saggi, infatti, si legge il tentativo (debitore in parte a Gramsci) di liberare Pirandello dal pirandellismo, ovvero dalle stanze filosofiche entro cui, forzatamente, lo scrittore di Girgenti è stato spinto e rinchiuso. Per farlo, l'autore del "Candido" volge lo sguardo alla panoramica degli studi critici su Pirandello e sulle discordie  tra i diversi intellettuali. Un occhio particolare è rivolto a Tilgher e alla sua "scoperta" di Pirandello e del pirandellismo.
Le riflessioni iniziano di solito partendo dalle critiche già registrate sul valore e la grandezza di Pirandello. Tramite esse Sciascia cerca di fare il punto e di correggere storture e imprecisioni. Il quinto saggio, il meno accademico, è quello che preferisco. Sciascia si lascia andare alle parole, appoggiandosi quasi solamente alle espressioni di Pirandello. Ne viene fuori una commovente apologia pirandelliana…
Le pagine sono secche (come nello stile sciasciano), ben strutturate, mai pedanti. Non mancano, e non poteva essere altrimenti, sguardi sul carattere della Sicilia e dei siciliani. La Sicilia che il racalmutese dipinge è spesso debitrice di quella dell'agrigentino. E le riflessioni sciasciane, nonostante la passione verso l'opera pirandelliana, trascendono il suo essere siciliano e allo stesso tempo vi si imbevono. Il legame tra la terra e l'opera, per entrambi, è un legame fortissimo ed è per questo che Sciascia, con la sua profonda sicilitudine, è un maturo critico dell'opera pirandelliana.

In breve: saggi non sfolgoranti, ma impegnati, profetici, giustizieri.

17 lug 2010

Susanna e il Pacifico - Jean Giraudoux (Romanzo - 1922)

"M'addormentavo con piccole isole di freddo sulla faccia o sulle braccia, nei punti colpiti dalla luna; e d'un subito negli stessi punti avevo caldo, aprivo gli occhi, avevo dormito otto ore, era il sole!"

Introdotto dallo splendido e coltissimo saggio "Pro Giraudoux" di Gesualdo Bufalino (qui in veste anche di traduttore), la storia si snoda nell'immaginazione di una giovanissima ragazza, Susanna, naufraga su un'isola deserta del Pacifico. Niente di nuovo; credo di averla già sentita questa storia. E' nuovo però il modo di raccontarla.
Scritto in prima persona dalla protagonista, Susanna s’impone per creatività, fantasia e senso dell'eccesso. Ne viene fuori un romanzo il cui senso ultimo, a me sembra, sia nel contrasto, nel gioco a nascondersi tra il sentimento della solitudine, della noia e della monotonia e la lotta che ci sta dietro per sconfiggerle. Tra la pascaliana infinitezza dell'uomo e la sua miserrima finitudine. E Susanna avverte, in questo duello, un significato profondo che anche una mente ancora non corrotta, sebbene colta, possa cogliere. L'approdo sulla riva dell'isola di militari uccisi, ad esempio, con il loro odore di guerra sulla pelle, contrasta con la smaniosa semplicità di Susanna: la stupidità dalla guerra si trova di fronte la donna che ha solamente la sua immaginazione, che possiede solamente l'universo intero...
Nel complesso, le riflessioni spontanee sulla finitudine dell'uomo, sulla memoria, su un Dio che resta sempre buono, sono considerevoli e stuzzicanti. Ed è soprattutto per mezzo dello stile che lo scrittore ce ne mostra lo spessore, come il riflesso in uno specchio o in una pozzanghera d'acqua piovana. Lo stile, dicevamo, colpisce per ricchezza e ludicità (ma ci sarà lo zampino burattinaio del traduttore?), per i giochi di contrasti, per gli esuberanti paradossi, per le bellissime metafore e similitudini; si avverte un'innocente, ma non troppa, tensione verso l'eccesso. Un po' prolisso e generoso di superflui particolari, Giraudoux si dilunga nella storia su dettagli che se fossero stati omessi nulla sarebbe cambiato nell'economia del racconto. Il recupero e il ritorno in Francia, nel finale, deludono per prevedibilità e semplicità; persino lo stile diviene meno denso.

15 lug 2010

Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano - Galileo Galilei (Saggio - 1632)

"Ora, quando sia vero che 'l centro del mondo sia l'istesso che quello intorno al quale si muovono gli orbi de i corpi mondani, cioè de' pianeti, certissima cosa è che non la Terra, ma più tosto il Sole, si trova collocato nel centro del mondo; talchè, quanto a questa prima semplice e generale apprensione, il luogo di mezo è del Sole, e la Terra si trova tanto remota dal centro, quanto dall'istesso Sole"

Tutti conoscono l'intensa vita di Galilei, le sue rivoluzionarie scoperte scientifiche, i suoi concitati sforzi filosofici, la sua geniale capacità divulgativa, il suo valoroso coraggio di fronte agli attacchi ecclesiastici. In questi giorni mi sono cimentato nella lettura di quello che unanimemente, e con ragione, è considerato il suo capolavoro filosofico, scientifico e letterario.
Benché siano frequenti semplici (eppure faticose) dimostrazioni geometriche e fisiche, e benché non sia facilissimo da seguire se non si ha dimestichezza con il volgare fiorentino di fine ‘500 (ma nemmeno impossibile), questo dialogo, summa del pensiero e delle scoperte galileiane, deve essere letto e conosciuto.
Il confronto si svolge a Venezia. Durante quattro lunghe giornate si dibatte principalmente della teoria classica, di ascendenza aristotelica, del cosmo e si rivelano come alcune tesi sul moto siano errate; si dialoga del moto diurno e annuo della Terra; e infine, seppur in questo punto lo scienziato pisano sbagli, delle maree. Il confronto è polemico ma garbato; modi d'altri tempi... Gli attori sono tre: Simplicio, professore aristotelico, Sagredo, appassionato delle nuove scoperte astronomiche, e Salviati, sostenitore del copernicanesimo e amico di un "Accademico Linceo", sua fonte principale, dietro cui si cela, ma non troppo, Galilei. Il primo, Simplicio, è accademico, fossilizzato sulle teorie del maestro Aristotele. Conosce a memoria i testi dello Stagira, si serve sovente di citazioni latine, ma non è in grado di sgomberare la mente da pregiudizi e tentare così di criticare e mettere in dubbio le sue teorie. Il suo modo di parlare, infatti, è greve, pomposo, mentre le idee che propone per confutare Salviati sono approssimative, vetuste e prive di qualunque forza persuasiva. Sagredo, invece, è il più ironico dei tre. Si avverte una vivace frenesia per la conoscenza. Alle volte è impaziente, però è attento alle spiegazioni dei due avversari. Non è un mistero che sia vicino alle dimostrazioni di Salviati. Quest'ultimo, infine, lo stesso Galilei, è in grado di fare fronte alle ottusità del senso comune e di antichi pregiudizi. Le osservazioni di Salviati sul Sole, la Luna e i pianeti, nella loro ingenuità, sono eccezionali; quasi fossero descritti da un bambino che guarda per la prima volta la Luna attraverso l'oculare di un telescopio.
Mi piace sottolineare come Galilei, quantunque lotti contro le osservazioni scientifiche di Aristotele, allo stesso tempo ne apprezzi il metodo e la volontà di sapere. Così come prova (stavolta senza troppo coraggio, ma sono ancora lontanissime le luci dell'Illuminismo…), a riabilitare la Bibbia e i suoi errori scientifici.
Nella propria essenza, il "Dialogo" galileiano è un libro polemico e audace. Galilei è solo contro tutti - solo come uomo ma forte della sua convinzione di scienziato -; è un'opera capitale per la storia del pensiero e della scienza.

13 lug 2010

Le sventure della virtù - Donatien-Alphonse-Francois de Sade (Racconto - 1787)

"Ma questo essere che aggredisco è mia madre, l'essere che mi ha portato in grembo. E sarà questa vana considerazione a fermarmi? e a che titolo essa potrà riuscirci? questa madre pensava a me quando la sua lubricità le fece concepire il feto da cui derivo? le devo essere riconoscente per aver assecondato il proprio piacere?"

Idea primigenia di quella che poi sarebbe diventata una delle opere più celebri e scandalose del "divino marchese", "Justine ovvero le sventure della virtù", questo lungo racconto delizia il lettore con uno stile eccessivo, ampolloso, ma carico d'effetto, e una trama gustosa, estrema e avvincente, seppur prevedibile e alle volte semplice.
Le intenzioni dell’opera sadiana sono sempre state filosofico - pedagogiche. E questa storia non è da meno. Infatti le assurde vicende della protagonista, Justine, cominceranno quando avrà appena dodici anni e si consumeranno quando sarà già donna e pronta al supplizio finale... Fino all’ultimo, saranno le sue sventure da ragazza virtuosa che ci accompagneranno, sino a giudicare, o meglio a porci la domanda, sul merito che la sciagurata Justine ripone nei valori e nei doveri religiosi. Per i modi narrativi e le intenzioni del racconto, con le dovute distinzioni, la storia di Justine mi ricorda il "Candido" di Voltaire (1759).
Il racconto in sé è spassoso. Sade dialoga di sovente con il lettore, aumentando e incoraggiando il gusto della riflessione e della lettura. Ciononostante, i continui resoconti delle sevizie e degli abusi, alla lunga, riducono la soglia d'attenzione. Da un punto di vista più filosofico (ma non per questo comprensibile), è interessante notare, invece, l'accostamento tra la virtù e la miseria, e tra il vizio e il lusso. Certo, i continui richiami all'epicureismo non sono, ovviamente, ortodossi. L'edonismo sadiano è più vicino a quello cirenaico, corrotto dall'opportunismo del marchese e dalla sua volontà a giustificare il suo estremismo.
Comunque sia, lo scrittore francese, tanto adorato e tanto odiato dalla storia del pensiero, in sostanza ci pone una domanda di natura morale, ci pone innanzi a una scelta: è preferibile seguire la virtù che ci rende la vita difficile e alla lunga, si sa, non l'avrà mia vinta, oppure è preferibile accodarsi ai dettami naturalissimi del piacere delle passioni e vivere una vita appagante e meno infelice? Perché abbandonarsi alle ingenuità della virtù e non alle intelligenze del vizio?
Con le dovute correzioni epicuree, io, da parte mia, ho già scelto…

Nota: la figura della sorella di Justine, Juliette, che all'inizio del racconto aveva scelto il sentiero del vizio, è abbozzata sommariamente nelle sue vittorie sulla vita. Il suo trionfante personaggio sarà ripreso qualche anno dopo, con qualche variante sul racconto letto, nel romanzo a lei interamente dedicato: "Juliette ovvero le prosperità del vizio".

10 lug 2010

Il grande Gatsby - Francis Scott Fitzgerald (Romanzo - 1925)

"Il gorgheggio stimolante della sua voce fu un gran tonico, nella pioggia. Dovetti seguirne l'eco per un momento, su e giù, con l'orecchio soltanto, prima che mi giungessero le parole. Una ciocca umida di capelli le attraversava con una pennellata blu la guancia e la mano era coperta di gocce scintillanti, quando gliela afferrai per aiutarla a scendere dalla macchina"

Precedente di qualche anno alla devastante crisi economica del 1929, il romanzo di Fitzgerald, fissando la decadenza morale di una classe che in quegl'anni si lascia trasportare dal successo economico, ne predice (uso questo verbo perché voglio essere generoso) in qualche modo l'avvento. Lo scrittore americano osserva perciò uomini ricchissimi che vivono in un mondo di lusso spropositato, ma che in fondo non sanno confrontarsi con loro stessi. I personaggi sono tutti opportunisti e al contempo incapaci di capirne il perché. Superficiali, dediti alla chiacchiera e al pettegolezzo; in fin dei conti cullati dalla loro frivola serenità e dalla loro apatia. Il valore del denaro, della ricchezza - migliore quella ereditata che quella sudata - è, secondo Fitzgerald, un valore negativo. Sembrerebbe che tutti i facoltosi personaggi fitzgeraldiani subiscano un processo d’inevitabile corruzione, come se nel denaro, nel loro possesso, si celasse intrinsecamente una diabolica presenza pervertitrice.
L'affresco che lo scrittore americano dipinge, stimola senz'altro la riflessione. Una riflessione però che ci lascia perplessi e un po' indifferenti. Siamo innanzi a un romanzo storico? O a un romanzo sociale? Oppure a un sempliciotto quadro realizzato da occhi che vedono soltanto ciò che vogliono vedere? Mi viene da pensare che non tutti, in quegl'anni e non solo, fossero così banali.
Sarà un mio limite, forse, ma non posso amare protagonisti così ingenui nel loro machiavellismo e frivoli nella loro vita quotidiana. Ad esempio, l'incontro tra Daisy e Gatsby, il quale fa colpo su di lei mostrandole sfacciatamente le sue ricchezze guadagnate, è oltre misura surreale e approssimativo per me. Persino lo scontro verbale tra Daisy, il marito di lei, Tom, e Gatsby, quando si rinfacceranno la verità sull'amore e sui tradimenti, è irreale quanto scialbo, spento nel ritmo, senza pathos, senza alcun climax.
Se dovessi usare un paio di aggettivi per descrivere il capolavoro di Fitzgerald: cloroformico e surreale.

8 lug 2010

Con gli occhi chiusi - Federigo Tozzi (Romanzo - 1919)

"Non si sarebbe arrischiata ad avere qualche idea perché ne aveva troppe che non le si addicevano; come non si arrischiava, quando era andata alla trattoria, a chiedere le ghiottonerie che vedeva; e invece le avvampavano il viso, e la stordivano quanto le stanze calde a cui non era abituata. Ma c'era in lei il presentimento e il senso si una vita, che le montava la testa come la ricchezza e il lusso degli altri"

In parte intensamente autobiografico (ma quale romanzo non lo è?), questo romanzo ha smentito, per la prima volta, un mio pregiudizio. Non credevo, infatti, che mi sarebbe piaciuto e invece ho trovato il racconto molto ben scritto e soprattutto, nei temi, molto moderno.
Un romanzo di formazione, ambientato nella provincia senese, che è lontano da descrizioni dannunziane, opalescenti e fugaci, della società borghese dell'Italia del primo novecento. L'amore di Pietro Rosi, il protagonista adolescente, senza ragione, a occhi chiusi appunto, alla fine si ritroverà a fare i conti tra il suo amore genuino, fedele, incondizionato e tra l'egoismo, l'opportunismo, la lussuria di Ghìsola, compagna di giochi e amante opportunista. Le attese, le speranze di Pietro alla fine saranno tradite dalla vita, dalla sua grovigliosa caoticità. Ne viene fuori un pessimismo profondo, naturale, che non dipende solo dalla condizione sociale dei protagonisti (anzi forse questa ne è un riflesso), ma dall'inettitudine dell'uomo moderno. La prospettiva cristiana di Tozzi - e la sua misoginia - condannerà moralmente Ghìsola, ma è lei che in fondo pone di fronte Pietro alla condizione dell'uomo moderno: all'inettitudine, all'apatia, al vuoto cosciente dell'esistenza. Come Pietro, però, anche Ghìsola è inetta, incapace di affrontare la vita in modo deciso e senza lasciarsi trascinare da essa. E' vero, diventerà con il tempo calcolatrice e burattinaia, ma è pur vero che lo diverrà non per scelta bensì perché dalla vita, dal destino, ha subito i dettami meno limpidi e meno sondabili.
Commovente la descrizione della madre, della sua morte, così come le descrizioni della campagna senese, della natura e dell'adolescenza di Pietro. Le descrizioni delle vicende legate alla trattoria del padre di Pietro, invece, sovente prolisse, sono a tratti monotone, a tratti poco utili, a tratti insipidi.

7 lug 2010

Le montagne della follia - Howard Phillips Lovecraft (Romanzo - 1931)

"Perfino il sibilo del vento aveva un tono particolare di malignità consapevole e, per un istante, sembrò che quel suono composito comprendesse un bizzarro fischio o sibilo musicale esteso su un'ampia scala come se le raffiche di vento soffiassero all'interno e all'esterno dell'apertura delle caverne onnipresenti e risonanti. Vi era un'oscura nota di antico orrore in quel suono, estremamente complesso e non identificabile con alcun'altra oscura impressione"

Nel sottosuolo antartico (simbolo del nostro abisso più intimo), una spedizione scientifica (simbolo della ragione, del desiderio di sapere) scopre antichissimi reperti alieni che porteranno morte e follia (simboli delle nostre paure ancestrali). Una ricerca, quella dei protagonisti, delle paure dell'uomo, di quel momento estremo dentro di noi in cui la ragione può poco; può tutt'al più perdersi. Siamo di fronte a un romanzo complesso: mitologico, d'avventura, del terrore, di fantascienza (capisco se a tutti non possa piacere); questo capolavoro lovecraftiano è un romanzo filosofico - esistenziale. Ci insegna che la ragione, pur essendo strumento formidabile di conoscenza, non può, non riesce a sondare ogni cosa; che nel mondo, e soprattutto nel nostro intimo, ci sono zone d'ombra impenetrabili, alcune volte scrutabili ma mal definibili. La ragione, l'uomo quindi, è costretta, per sua stessa natura, a restare incatenata dentro la caverna delle nostre paure, del nostro desiderio di capire e stupirci. Un romanzo filosofico dicevamo. La ragione, quando si spinge oltre i suoi confini, corre il rischio, nelle migliori delle ipotesi, di divenire essa stessa follia.
La lettura scorre grazie allo stile attento e prezioso (forse un po’ tradito dalla traduzione, ma sarebbe da verificare…) del grande scrittore di Providence. Si ha l'impressione, alle volte, di vivere in un sogno, in un incubo, in una dimensione onirica che però è ben definita, chiara, senza aloni indistinti e per questo dapprima disturbante, poi angosciante e infine terrificante. Scritto in prima persona, è evidente la tecnica narrativa nel presentare il racconto da uno scienziato, un geologo, il quale possiede tutti gli strumenti razionali per essere logico e chiaro. Il mistero, la follia, l'assurdo così vengono tracciati nel modo più inequivocabile e schietto possibile, ed è inevitabile che quella subdola sensazione di terrore si amplifichi ancora e ancora sotto la pelle. Le descrizioni delle montagne, delle freddissime tempeste antartiche, della regione occupata dalle ciclopiche costruzioni aliene sono magistrali. Sebbene alle volte si ecceda nel racconto dei particolari scientifici della spedizione, l'abilità di Lovecraft, invitante e unica, ci consente con facilità di afferrare e di vivere il suo scopo: creare tensione, gestire la crescente e viscida inquietudine.

4 lug 2010

L'amaro miele - Gesualdo Bufalino (Poesie - 1982)

"Fu nel fumo, nel rossore d'un orto,/ e i cotogni odoravano tutt'intorno/ così forte (non bisogna ricordarsene)./ In tanti, ognuno sdraiato e smorto,/ un'aspide prava, un'aspide storta/ ci morsicò l'occipite,/ le mani adulte e furenti./ Poi ne parlammo sottovoce a due a due,/ tutto quel giorno e l'altro" (Nascita del peccato)

Non mi piacciono le poesie e, ma solo un po', nemmeno i poeti. Mi stancano, le trovo presuntuose, come certe pretese universalistiche dei poeti. Eppure, ogni tanto, verso alcuni poeti non posso non inchinarmi di fronte ai loro assoluti versi. E lo scrittore comisano è uno dei pochi cui volentieri mi tolgo il cappello. Le parole, si sa, con i loro segreti da sondare come gli archeologi di fronte alle incisioni di una tomba preistorica, sono un'arma capace di qualunque assassinio. Così è per Gesualdo Bufalino.
I temi sviscerati sono sempre gli stessi dell'opera bufaliniana: la memoria e quindi la nostalgia verso anni già lontani ma pur sempre presenti negli affilati ricordi; la luce della Sicilia con la sua ferocia e i suoi fotoni luttuosi; il conflitto perenne e personale con Dio; la vacuità dell'esistenza e quindi la morte con la sua bellezza e tragicità; gli amori lontani e defunti; gli amici scomparsi come ombre nella notte; la guerra sterminatrice e insieme sogno di gioventù e momento di conoscenza; la vecchiaia; la sensualità della carne.
Vista e olfatto i sensi più delineati quali veicoli per ricreare immagini e sensazioni. E attraverso queste immagini si avverte la natura intima, emanata dalla memoria, dei versi bufaliniani. Questi, malgrado le esperienze private, s’imbacuccano di un che meno personalistico e più totalizzante, più universale appunto. Non ci sono presunzioni però nei versi del professore, se non dirette a se stesso (anche se la pubblicazione è espressione, contraddittoria ma giustificabile, di volontà e di pretesa universalizzante).
La sezione "Senilia" recupera, tra le altre, alcune poesie già contenute ne "Il Guerrin Meschino". In queste si nota una particolarità: si ha l'impressione di leggere una poesia solo dal paratesto. I versi, infatti, scorrono e si leggono allo stesso modo in cui si leggono le pagine narrative dello scrittore comisano. Mi piacciono...
In generale alcune poesie sono decadenti e quasi funeree, altre sono pessimiste e scettiche; mi vengono in mente Baudelaire e Leopardi...
Prevalgono i versi sciolti, ma non mancano giochi metrici da professore come settenari e novenari per lo più a rima alternata.

P.s.
"L'amaro miele" resta pur sempre un libro di poesie...

2 lug 2010

Giulia o la nuova Eloisa - Jean-Jacques Rousseau (Romanzo - 1761)

"L'unico mezzo sarebbe di spartire tutta la propria vita in due grandi porzioni, l'una per vedere l'altra per riflettere; ma anche questo è pressoché impossibile, perché la ragione non è un mobile che si possa lasciare e riprendere a piacimento, e se uno è riuscito a viver dieci anni senza pensare non penserà mai più"

Quanto obsoleto conservatorismo.
In questo romanzo epistolare - filosofico, i valori propugnati da Giulia - Rousseau sono i valori borghesi tutt'oggi dominanti e ipocritamente celebrati. Eppure, anche se Rousseau non se n’è accorto, sono valori emendati, lo sanno tutti, da quel vizio tanto deprecato ma la cui necessità regola e armonizza la convivenza tra gli uomini. Ma questo è un altro discorso…
Rousseau, nella “Nuova Eloisa” (il richiamo alle lettere dell’Eloisa di abelardiana memoria è ovvio) ci insegna una vecchia morale, purtroppo vincente, che, fondata su assiomi quantomeno discutibili, non riesce a spiegare né a correggere la perenne insoddisfazione dell'uomo. La storia di "Giulia" si può riassumere nel racconto spasmodico di un conflitto interiore tra la passione, che scuote e inebria, e le convenzioni sociali, che assopiscono e stordiscono, ma permettono di essere accettati. Assistiamo dunque alla lotta tra Saint-Preux, l'uomo al quale Giulia d'Etange vorrebbe concedersi per amore, quello passionale, quello sensuale, e i genitori di lei che faranno di tutto per separarli e costringere la figlia a sposare Wolmar, l'uomo onesto e facoltoso che la società ben vede, che converrebbe sposare.
Passione contro amore coniugale quindi. È il secondo a vincere, a dominare, a essere superiore, ed è naturale e conseguente l'elogio per l'autore del "Discorso sulle origini della disuguaglianza fra gli uomini" della famiglia, del matrimonio, della religiosità.
Le riflessioni filosofiche del filosofo svizzero sono, come sempre, acute e penetranti. Nondimeno l'idea che la donna sia per natura pudica, che il suo scopo sia di moglie e madre, che l'amore sia superiore alla passione (senza mai pensare a un connubio tra i due) sulla lingua hanno un sapore di muffa, rancido, quasi putrescente. Secondo l'anticipatore del romanticismo, il bene del matrimonio si forma, si plasma solo se la passione si tramuta in sentimento, la sessualità in amore. Mi chiedo perché non possano coesistere insieme, appassionatamente, passione e sentimento, sessualità e amore. Quanto trovo superiore la sensualità e la vittoria dei protagonisti de "L'amante di Lady Chatterley" di Lawrence...
La lettura procede claudicante per via dell'enfasi patetica delle lettere. Quelle di Saint-Preux, infatti, sono mielose e lamentose, come quelle di risposta di Giulia sono, almeno le prime, distaccate e traboccanti di affettata virtù. Quando anche il suo sentimento sarà chiaro, allora le lettere di Giulia diventeranno meno sospettose, ma le espressioni patetiche rimangono se non si rafforzano. Il personaggio di Saint-Preux, il personaggio che ama con passione, il precettore filosofo, potrebbe essere il più interessante, invece è proposto con superficialità, e di lui si leggono addirittura apologie dell'ignoranza. Persino le descrizioni sullo stile di vita e sull'organizzazione di Clarences, luogo di campagna in cui Giulia, il marito Wolmar e i figli si trasferiranno (che fanno pensare al romanzo utopista), sono melliflue e nauseanti.
Non mancano tuttavia curiosità sulla musica (una delle grandi passioni di Rousseau), considerazioni sulla Francia, sulla letteratura, sul teatro e non mancano apprezzabili osservazioni sulle contraddizioni umane. Nel racconto dello stile di vita coniugale e familiare a Clarences, in sintesi, si legge altresì il pensiero pedagogico del filosofo svizzero, poi pienamente sviluppato nell'"Emilio". Il romanzo, inoltre, è costellato da "N.d.A." a piè di pagina. Sono piccole note dell’autore sullo stile e sulla filosofia dei personaggi che divertono per la loro autoironia.

Dunque Rousseau: geniale, sempre lucido nelle sue indagini, grande scrittore; non ne ho quasi mai condiviso il pensiero...

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