Presentazione


Presentazione

Questo spazio è dedicato agli appunti, alle briciole di recensione irrazionali, che colgo, da lettore appassionato e spesso rapsodico, nei miei viaggi verso la lentezza e la riflessione. Briciole di recensione irrazionali dunque.

Briciole perché sono brevi, a-sistemiche, frammentarie, come un certo spirito moderno pretende. Non sono delle vere recensioni. Queste hanno uno schema e una forma ben precisa, mentre i miei sono più che altro appunti colti sul momento, associazioni d’idee, giudizi dettati dalle impressioni di un istante, da una predisposizione d'animo subitaneo, da un fischio di treno... E perciò li definisco irrazionali. Perché sfuggono da un qualsiasi schema predefinito, perché sono intermittenti, perché nella scelta di un libro, per via di una congenita voracità, spesso non seguo linee e percorsi definiti dalle letture precedenti, ma mi lascio trasportare dagli ammiccamenti o dalle smorfie di sfida che un libro sulla mensola della libreria mi lancia.

È un modo insomma di coltivare, di giocare, di prendere vanamente in giro la memoria, per conservare, catalogare e archiviare frammenti di ricordi e suggestioni che un giorno, magari, potranno farmi sorridere e, perché no, commuovere.

31 ago 2011

Gesù - Paolo Flores d'Arcais (Saggio - 2011)


"A metà del primo secolo, e fino alla normalizzazione inaugurata dagli imperatori del IV secolo, il caleidoscopio dei cristianesimi è un'autentica Babele, lussureggiante di teologie inconciliabili. A prevalere, oltretutto, non saranno quelle più radicate nelle origini storiche, né le più 'logiche'".

Libro di reazione e di natura divulgativa contro i libri che l'attuale papa Ratzinger ha dedicato alla figura di Gesù, è di reazione anche contro tutta la tradizione cristiana che fa derivare la Verità da un impasto di menzogne e voluti silenzi ormai riconosciuti dalla maggioranza degli storici. 
Certo, questo non è un libro per tutti. Accettare 'L'invenzione del Dio cristiano' (il sottotitolo del pamphlet), dopo millenni di raffinatissime pedagogie improntate su una religione che nascerebbe da falsità e costrizioni, non può che destabilizzare, provocare sgomento e smarrimento. L'indagine del filosofo friulano è soprattutto storica e storiografica, oltre che filologica e logica. Gli argomenti che tratta sono diversi, ma in sintesi si può riassumere il libro nel dire che Gesù, ovviamente (anche se per la maggioranza non è così), non è stato il Messia, bensì solo un profeta apocalittico, i cui discepoli, alla sua morte (senza resurrezione), si scissero in comunità in contrasto tra loro, fino alla definitiva vittoria della dottrina paolina. Nulla di nuovo!
È però bene, per chi cerca la verità nei fatti, divulgare, esprimersi, polemizzare.

30 ago 2011

L'incredibile storia di un cranio - Giuseppe Bonaviri (Romanzo - 2006)


"A guardarla, la luna pareva si stesse gonfiando nel suo interno fiato astrale. Porporina disse: - Jehova, facciamo di noi stessi una sola persona fuori da ogni tempo. Quando i due amanti si unirono e il tempo si sfigurò in tanti punti-eventi, la luna assieme a loro fiottò".

Una Sicilia meravigliosa, magica come le parole usate per descriverla, la presenza costante di un vento sognante che aleggia sulle pagine soffuse d’un odore metafisico, un gruppo di scienziati geniali e malinconici; gli elementi base di un cocktail dal sapore incantato.
Un gruppo internazionale di scienziati lavora in un centro di biologia negli Stati Uniti, sperimentando e fantasticando clonazioni, innesti tra fiori e piante sugli uccelli, manipolazioni di DNA. Tra i personaggi, i principali sono Porporina, catanese, e Jehova, cretese. I due sono innamorati, tra loro, del loro lavoro, della natura. E sentono, insieme agli altri ricercatori, il bisogno di trovare la formula armonica (e mefistofelica) della fusione con cui mondo minerale, vegetale e animale possano essere la perfezione, una cosa sola. Al gruppo si unisce Iside (attenzione ai nomi dei personaggi, rivelano le loro qualità e i loro caratteri), un'altra singolare scienziata che tiene gelosamente nascosto un cranio umano di cui si era innamorata. Il teschio di Toto, così sono chiamate le ossa di un probabile soldato siciliano morto in Africa durante la guerra del '40 - '45, è un'attrazione quasi morbosa per Iside. C'è un che di necrofilo, di orgasmico in questo rapporto. Comunque, i tre amici e tutta l’équipe decidono di clonare Toto e di farlo partorire dal ventre di Iside. Per realizzare l’abominevole parto, sommeranno le loro conoscenze e i loro sogni e dal miscuglio di cellule d’uccelli, di polvere di stelle, di fiori e cellule umane - la somma tra il cielo e la terra - nascerà un mostro. Data alla vita la creatura, la storia si sofferma e si completa su Jehova, sul suo viaggio nel Mediterraneo, sulla sua malinconia e i dubbi sulla sua scoperta scientifica.

I capitoli brevissimi, lo stile classico e trasognato, gli evidenti richiami a Dante, a Boccaccio, alla mitologia, al romanzo epico e picaresco, l’inebriante erotismo, le spiazzanti note autobiografiche dell'autore disseminate su tutto il romanzo, ubriacano felicemente il lettore. E non è un caso che più che la storia, colpiscano le descrizioni dei paesaggi, delle sensazioni dei personaggi, degli amplessi. 
Giuseppe Bonaviri, un altro siciliano da scoprire…

29 ago 2011

Il caro estinto - Evelyn Waugh (Romanzo - 1948)


"Il corpo sembrava molto più piccolo del vero, ora che, per così dire, era liberato dal tenace involucro della mobilità e dell'intelligenza. Ed il volto con gli occhi obliqui e spenti - il volto era proprio orribile; senza età come una tartaruga e così inumano; una caricatura oscena e sghignazzante nella sua stolida truccatura, di fronte alla quale la maschera diabolica che Dennis aveva visto appesa al cappio diventava un giocoso ornamento; qualcosa che uno zio avrebbe potuto mettersi sul viso per la festa di Natale". 

Può una storia semplice, non propriamente geniale, carica di pregiudizi e stereotipi mettere il lettore in condizione di pensare a uno dei tempi più grandi dell’esistenza, come la morte, e al ruolo che può giocare il grado di civiltà di una nazione sui costumi di un popolo? Waugh evidentemente ci riesce. 
Dennis Barlow, un poeta inglese non del tutto affermato, lavora felicemente in un cimitero per animali a Los Angeles. Trovato suicida un amico, il poeta, che fino allora aveva conosciuto la morte indirettamente, scopre i 'Boschi Mormoranti': un'organizzazione funeraria che si occupa dell’estetica dei cadaveri per renderli decorosi agli occhi dei familiari. Nel descrivere l'istituto, Waugh con fine sarcasmo vuole mettere in rilievo quanto ridicola sia l'attenzione dell'uomo civilizzato, specialmente statunitense, per le cerimonie funebri. I dettagli insignificanti riportati e sezionati dal romanziere hanno non solo il fine di fare sorridere, ma anche quello di rendere esorcizzabile la paura della morte. Dennis è affascinato dalle maniacali concentrazioni dell'organizzazione, ma più di tutto a incantarlo è Aimée Thanatogenos (un nome, una garanzia), una truccatrice dei 'Boschi Mormoranti'. Amante del proprio lavoro, Aimée Thanatogenos è infatuata dal signor Joyboy (altro nome spensierato), lo strambo imbalsamatore dal tocco sopraffino che per conquistare la dipendente le manda i visi dei defunti sorridenti. Tra un'imbalsamazione, un trucco e una poesia (copiate dal poeta da un'antologia), Aimée si decide per il giovane inglese. Ma scoperto che Dennis aveva mentito sulle poesie e sul lavoro, si ammazzerà con un’iniezione di cianuro. I due uomini innamorati (non più di tanto in verità) si alleano quindi per evitare lo scandalo, e, poco prima del ritorno in Gran Bretagna di Dennis, decidono di cremare il corpo dell'amata nel forno crematorio del cimitero degli animali.

Insomma la morte fa paura e per esorcizzarla si trucca con il rossetto e il fondotinta. L’umorismo perciò è pirandellianamente inevitabile e persino i pregiudizi dello scrittore inglese, non del tutto ingiustificati, sui costumi americani divertono e fanno riflettere. Il romanzo è scritto molto bene e la lettura scorre senza stancare. Pure la critica derisoria che l'inglese fa alla cultura americana facilita il lettore. È la storia in sé invece che annoia: i personaggi non hanno spessore psicologico, i fatti accadono nella semplicità del caso e si sfoglia l’ultima pagina con la sensazione che si sarebbe potuto fare di più.

28 ago 2011

Saggi sulla religione - John Stuart Mill (Saggi - 1874)


"L'esistenza di Dio non può infatti venir dimostrata dai miracoli, se non si riconosce già un Dio; ciò che ha l'apparenza di miracolo può sempre venir posto a carico di un'ipotesi più probabile che non l'interferenza di un Essere, della cui effettiva esistenza tale miracolo sia supposto costituire l'unica prova".

Le riflessioni milliane sulla religione sono ancora oggi attuali, specialmente se pensiamo al dibattito contemporaneo sulla bioetica. L’atteggiamento pacato, illuminista, tollerante, quasi stranito – l’atteggiamento di chi non possiede certezze - dovrebbe essere da esempio per tutti quegli attori che in questi anni dibattono accanitamente sui temi religiosi e sulla libertà di scegliere il proprio stile di vita. Certo, non tutti sono dubbiosi, e non tutti possono esserlo… Ma cerchiamo di capire le conclusioni che il pensiero milliano ha originato.
Il primo dei tre saggi è dedicato alla natura, alla sua definizione e al problema morale che ne consegue. Le movenze concettuali del filosofo inglese sono razionali. Dapprima si tenta di definire il concetto ‘natura’, da esso, poi, inizia l'analisi. Ovviamente l'attenzione linguistica è fondamentale quando si cerca di spiegare un termine, e Mill in questo è scrupolosissimo. Definita quindi con tutte le sue sfaccettature la 'natura' - ovviamente nell'accezione positivista - il filosofo britannico si chiede se sia morale per l’uomo intervenire su essa. Il problema irrisolto della religione sul male nella Natura, che inevitabilmente si propone al filosofo nella sua disamina, lo porta a considerare le nozioni ambigue e contraddittorie di onnipotenza e infinita bontà di Dio. Se, alla fine, Dio non può essere onnipotente, secondo Mill è l'uomo che deve agire sulla natura, per cercare di dare un superiore ordine morale al mondo.
Il secondo saggio invece, dedicato all’utilità della religione per l’uomo e per la società, è di matrice prettamente utilitaristica. Mill costata che la religione, la sua dogmatica verità, dopo le scoperte scientifiche e filosofiche del XVIII e XIX secolo, è messa in discussione; e solo da questo momento, dunque, è possibile cercare di capire se sia utile o meno. Il filosofo attua una forma di pulizia della morale cristiana, la morale dettata dall'alto e quindi ritenuta superiore e assoluta, osservando come invece sia anche storicamente determinata e ancora di buon senso (e quindi riconosciuta e vincente). 
L’impressione è che il metodo e le domande siano pertinenti, eppure resiste qualcosa che non mi soddisfa; forse ciò è dovuto all'assenza di coraggio, e di estremismo, che ne esalti le scoperte.
L’ultimo saggio è dedicato al teismo. Qui Mill cerca di mostrare positivamente - ma non dimostrare - come l'idea di un Dio o degli dei possa essere conciliabile con l'esperienza scientifica (dimenticandosi però di mostrare, d’altro canto, come l'idea opposta, ovvero che la scienza possa essere compatibile con l'idea di inesistenza della divinità, sia altrettanto plausibile). Sono riprese senza sottintesi le argomentazioni humeiane, senza però lo stesso sguardo perforante e provocatorio del filosofo scozzese. Ne viene fuori un significato ottimistico della religione: in fondo induce speranza, un propellente positivo per l'uomo e la società. Quasi si scorda che la scienza e la ragione hanno il compito, sebbene spesso senza sorrisi, di smascherare la menzogna e l'illusione.

Benché interessanti e apprezzabilissimi per lo stimolo intellettuale che riescono a produrre anche oggi, i saggi non possiedono la forma persuasiva e combattiva che invece hanno altri scritti di diversi autori sullo stesso tema. Domina un degno sostrato scettico, onestamente agnostico, ma è pavido e indefinito. Resta, alla fine, un respiro di libertà, un riconoscimento della diversità dei caratteri umani, un plauso alla libertà della ricerca della verità, delle verità.

26 ago 2011

Tre croci - Federigo Tozzi (Romanzo - 1920)


"Egli entrò in camera, e ci si chiuse. Sentì che per lui vivere era doventata una cosa del tutto involontaria. Non gli importava più di niente, e le voci di quelli che parlavano nella stanza accanto gli sembrava che si fermassero a una specie d'ostacolo; che non le lasciava passare oltre. Egli, a un certo momento, si voltò perfino per vedere se quell'ostacolo era visibile!"

Ambientato in una Siena che si staglia sullo sfondo con le sue case decadute, metafora se vogliamo di una crisi esistenziale, e non solo, sentita fortissima nei primi decenni del secolo scorso, il romanzo di Tozzi fonde il tema sociale con l’analisi psicologica.
Giulio, Niccolò, Enrico, i fratelli Gambi protagonisti della storia, sono librai che, per far fronte alla loro crisi economica, decidono di falsificare una firma su una cambiale. Sin dalle primissime pagine ci troviamo immersi in un romanzo sociale, realista (e il pensiero a Verga si palesa immediatamente), eppure, adagio, la storia inizia a superare il verismo verghiano e assume connotazioni più sfumate verso l’esame psicologico. Le difficoltà economiche, infatti, mostrano il lato peggiore dei protagonisti, i quali anche tra loro avvertono un senso di repulsione. Si avverte in tutto questo la costante pressione che quella firma falsa esercita sui tre fratelli. Così gli scontri, i dissapori anche animati, ne mettono in risalto i diversi caratteri. Tozzi sembra interessarsi molto a questo aspetto tanto da dedicare agli alterchi molto spazio. Tra tutti spicca la figura di Giulio, il personaggio che sembra psicologicamente meglio trattato. Più profondo, più audace, meno sprovveduto, sembra lui il fratello che è destinato a salvare la famiglia e la libreria. Ma alla seconda firma falsa la truffa è smascherata e il disastro esplode. Rapidamente la collera si tramuta in disperazione, manifestandosi nella tragedia finale. Giulio, in pagine straordinarie, si uccide impiccandosi, e una volta morto, scagionati nel processo, Niccolò con la moglie Modesta si separeranno da Enrico, che fino a quel momento aveva vissuto con loro. Resteranno senza nulla, fino a quando Niccolò morirà di apoplessia reumatica, mentre Enrico si spegnerà in miseria e solitudine in un Ospizio di Mendicità.

Racconto di decadenza, il romanzo è lento, piatto, fino a quando negli ultimi capitoli è scoperta la truffa. Allora la storia diviene appassionante e pure lo stile ne risente positivamente. Lo stile, in generale, per la ricerca naturalistica che vi sta dietro, non spicca per grazia, ma alcune pagine, come quelle della morte dei fratelli, brillano per intensità e colore.

24 ago 2011

La formazione di uno scrittore. Il caso Bufalino (1981 - 1988) - Vittoria Bosco (Saggio - 2008)


"Un mondo senza aggettivi, quello verso cui anelano gli scrittori asciutti e realistici, è un luogo dove le cose sole esistono e non le loro qualità; l'aggettivo, viceversa, toglie l'ossificazione agli oggetti e li rende vivi; se poi lo si applica ad un sentimento, a un uomo o ad un'azione esso può aprire infiniti campi metaforici contigui, arricchendo in modo inesauribile l'universo della scrittura".

Pubblicato nel 2008, ma presumibilmente scritto alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, lo scritto della prof.ssa Bosco non brilla in quanto a originalità. Dedica il suo studio alla figura dell’immenso Bufalino, scrivendone una biografia che si interrompe ai primi anni ’80, descrivendone la poetica – ma solo le riflessioni sul perché scrivere, sulla memoria, sulla vita e quindi sulla malattia e sulla morte - e analizzandone genericamente l’opera narrativa fino a ‘Le menzogne della notte’. Ricorre spessissimo alle parole del comisano (e questo è un bene), rischiando però di essere scontata. L’excursus è frettoloso (nulla di nuovo sulle righe), ma pertinente per le intenzioni divulgative (anche se credo che le vere intenzioni siano più accademiche). 
Si distingue però un’intervista inedita della stessa studiosa a Bufalino. Sebbene siano ripresi argomenti più volte trattati, è pur sempre un colloquio prezioso. 

Insopportabili gli innumerevoli refusi.

impressioni estive


impressioni estive
Inserito originariamente da Salvo Kalat

23 ago 2011

Uomini e no - Elio Vittorini (Romanzo - 1945)


"Il sole del deserto splendeva sulla città invernale. L'inverno era come non era più stato dal 1908, e il deserto era come non era mai stato in nessun luogo del mondo. Non era come in Africa, e nemmeno come in Australia, non era né di sabbia né di pietre, e tuttavia era com'è in tutto il mondo. Era com'è anche in mezzo a una camera".

Diviso in 136 brevissimi capitoletti, scritto in modo semplicissimo, con una sintassi per nulla ipotattica, il romanzo, considerato il primo della Resistenza, si legge d'un fiato. Enne 2 è il protagonista, il comandante partigiano che tra un'azione militare e l’altra vive la sua crisi interiore. Innanzi alla guerra, ai corpi morti dei civili uccisi per rappresaglia in una Milano invernale e luminosa, matura la storia d'amore tra Enne 2 e Berta, una donna sposata che, infelice, oscilla tra la serenità e la felicità. Entrambi sono in guerra contro i tedeschi, ma anche contro se stessi, con i loro ricordi. Le riflessioni sulla guerra e sull’amore, e quindi sull’uomo e sul suo significato, non solo si leggono nei dialoghi tra i vari personaggi, ma soprattutto in alcuni capitoli che interrompono più volte gli altri. Scritti in corsivo e in prima persona (a differenza degli altri), questi capitoli rimarcano ancora di più il loro ruolo di riflessione pura e segnano uno stacco netto tra il momento realistico della storia e quello più onirico. A raccontare Enne 2 è uno Spettro che gli parla, che lo esorta alla felicità; un alter ego, in uno sdoppiamento interiore, dietro cui sembra celarsi l'autore stesso. Eppure lo Spettro è anche la memoria di chi cerca di recuperare i ricordi d'infanzia felici, i ricordi lontani dalla guerra. Se la storia mostra gli orrori e le difficoltà della guerra, i capitoli in corsivo esprimono l’intima sofferenza del partigiano. Un soldato però che non è d'un pezzo, ma ha il temperamento dell'intellettuale, con tutti i suoi dubbi e le sue incertezze. Questi ultimi sono quelli di un partigiano che però è pure un uomo che si pone le grandi domande sulla vita e sulla morte. 
Il romanzo si conclude con la scoperta dei tedeschi dell'alloggio di Enne 2, e questo deciso a non scappare. Mentre l'operaio che lo avvisa del ritrovamento tedesco diventa il protagonista. La storia infatti termina con il racconto di questo operario che vuole imparare a essere un partigiano, ma che di fronte a un soldato tedesco, pur avendone l'opportunità, decide di non ucciderlo. Un pizzico di non dimenticata umanità, di speranza...

Le pagine sono intrise dell'idea che ogni dettaglio non debba essere trascurato. E per assecondare quest’idea di estremo realismo, lo scrittore siracusano utilizza uno stile semplice e dialoghi riportati nell'uso comune – elementi che almeno rendono spedita la lettura. Tuttavia le conversazioni si perdono in continue ed estenuanti ripetizioni e facezie che non riesco ad apprezzare fino in fondo.

gita al faro


gita al faro
Inserito originariamente da Salvo Kalat

13 ago 2011

Qui pro quo - Gesualdo Bufalino (Romanzo - 1991)


"Dalla volta celeste, sterminato coperchio che al modo d'un fazzoletto quattro cocche tenevano rigido e teso, nessun sollievo per gli occhi, ma piuttosto l'impressione, non so come altro chiamarla, ch'essa potesse all'improvviso, attraverso uno screzio o lapsus di nuvola dissuggellarsi e svelare - per un attimo, un attimo solo - l'inguardabile faccia di Dio..."

Se l'onomastica ha un senso - che non ha, ma nelle regole di un gioco tutto può avere un significato - la verità è nei nomi e in essi il destino dei portatori è scritto a chiare lettere. Se si seguissero i sensi di questo gioco imposti dall’autore, sin dalle primissime pagine si potrebbe cogliere senza molte difficoltà la sorte dei personaggi principali. Il primo esempio lo troviamo nel nome della narratrice - dietro cui si cela, sdoppiato, Bufalino -, Esther Scamporrino, alias Agatha Sotheby. È lei, il cui soprannome fa il verso ad Agatha Christie, l'investigatrice improvvisata, la timida indagatrice delle tortuose pieghe della ragione. Il romanzo, si sarà capito, è un giallo, e come in ogni giallo che si rispetti c'è un morto ammazzato. Ed eccoci al secondo e più lucente esempio. A morire, schiacciato dal busto di un Eschilo in pietra, è Medardo Aquila - costretto a sdoppiarsi per non essere solo - il cui nome richiama l'hoffmanniano e doppio Medardo de "Gli elisir del diavolo", e il cui cognome ricorda la leggendaria morte di Eschilo, ucciso colpito da una testuggine scagliata da un'aquila.
Se l’onomastica quindi ha un suo senso, la semiologia ne ha un altro non meno trascurabile. Se le parole sono i segni per eccellenza, sin dal titolo appare chiara la volontà dello scrittore di sfidare chi legge a decifrare le tracce che le parole possiedono. Già il titolo, come le parole, richiama qualcosa che sta per qualcos’altro, quel medievale aliquid stat pro aliquo…
Aldilà del gioco onomastico e semiologico, la storia è presentata come un'opera teatrale e tutti i personaggi, appunto, hanno pirandellianamente una e mille maschere. Maschere che sono di riflesso molteplici figure dello stesso autore, nascosto, ma non siamo meravigliati, dietro i paraventi dei suoi seducenti vocaboli. Difatti, per fare un esempio, allo stesso modo di Agatha, anche dietro Medardo si occulta un dimezzato Bufalino. Ma cerchiamo di ordinare i fatti raccontati nell’invenzione bufaliniana.
Come si scriveva poc’anzi, ucciso nella sua villa sul mare da un busto eschileo l’editore di gialli Medardo (la metaletteratura quindi è uno dei cementi di cui il romanzo è impastato), gli odiati ospiti sono costretti a subire un'astrusa indagine, intrappolati nella villa per le frane causate da un temporale estivo. L’indagine non è dettata dall'analisi dei fatti accaduti, ma dallo stesso defunto, il quale, con delle lettere preparate preventivamente, si assurge, sarcastico e accusatore, ad architetto e burattinaio dell'intera ricerca dell’assassino. Un demiurgo che dall'aldilà si diverte a plasmare l'argilla dell'intreccio; un Medardo-Dio solitario e burlone che, creati Adamo ed Eva, si distrae prevedendo le loro mosse dopo aver loro insediato dietro la fronte il cruccio del male. Il puparo Medardo, che manovra i suoi burattini, sfida quindi i suoi ospiti a giocare (questo verbo così come le similitudini a esso collegato ritornano innumerevoli volte nelle pagine) ai detective, invitandoli già prima del delitto a raccogliere appunti sugli orari e sulle abitudini che avrebbero mostrato nella villa. Un passatempo degli alibi che porterà Esther, seppur fuorviata dalle lettere minacciose e beffardamente contraddittorie del fu Medardo Aquila, a smantellare le stesse accuse del morto e, infine, ad accusarlo a sua volta del macchinoso suicidio. Sembra dunque che ogni cosa sia al suo posto, e invece, in un mirabile gioco di incastro tra testo e paratesto (evidenziato dal brillante scritto di Giuseppe Traina che chiude il volume), il romanzo si conclude senza la definitiva vittoria della ragione. Rimarrà il dubbio e, alla fine, nessuna riflessione ci indicherà il vero assassino. È il teatrino della vita: qualcosa ci manovra, destino o Dio che sia, e l'uomo ha solo i limiti della ragione cui appigliarsi, per illudersi che è libero di scegliere.
È un romanzo carico di riflessioni filosofiche e su di esso, come sull'intera opera bufaliniana, infinite considerazioni si potrebbero proporre. Tutte profondissime, non c'è dubbio: scetticismo, pessimismo, limite delle parole e della ragione, delle stesse possibili soluzioni che richiamano l’impossibilità di scelta della vita... Lo scrittore di Comiso, com’è stato più volte definito il più europeo degli scrittori siciliani, con un romanzo sui generis, con un morto come protagonista insieme a una riservata donna improvvisata investigatrice, con una conclusione aperta, con riflessioni esistenziali, con la metaletteratura mai solo sullo sfondo, si dimostra ancora una volta fragrante di post-moderno.
Si era già accennato della metaletteratura. Altre poche parole mi sembrano d'obbligo. L’editore di gialli, da vivo e da morto, e i diversi personaggi intavolano vivaci confronti sul romanzo giallo, sulle sue regole. E così fioccano le citazioni, le criptocitazioni, costringendo il lettore a guardarsi le spalle; si attende l'agguato spietato del cacciatore, imboscato nella foresta delle parole e dei sofismi. È una partita di scacchi in fondo, un ballo con i suoi passi precisi. Brillante ironia, assurda sfida con il lettore, teatro, cinema, musica, jazz e classica, letteratura, tutte passioni bufaliniane nell'intreccio a tessere la tela della storia; si ha la sensazione che lo scrittore voglia prendere in giro chi legge, che ci sia una malata contraddizione nella volontà dell'autore stesso, impossibilitato a camuffarla completamente a un lettore-dottore che non potrà mai avere la definitiva cura per risolverla…
In verità si avverte un'assenza, un vuoto. Ma sarà perché costitutivamente e volutamente il romanzo è inconcludente; sarà perché non si respirano, se non in brevi ma fulminanti sprazzi, quei brividi della memoria a cui il comisano ci ha abituato; sarà perché il senso, tra testo e paratesto, è nascosto tra i misteri della vuota esistenza.
E poi, che stile!

2 ago 2011

Le intercenali - Leon Battista Alberti (Saggio - 1436?)


"Ma io vi chiedo solo questo, fate in modo che possa continuare i miei studi letterari, che possa godere di buoni amici e possa tollerare parenti meno crudeli o per lo meno fate in modo che non debba elemosinare continuamente un pezzo di pane".

È, in verità, un pensiero non recente, ma l'idea che si possa fare filosofia, letteratura, pedagogia in poche pagine, addirittura per frammenti o per briciole, è un’idea che mi solletica e mi spinge alla riflessione. Soprattutto oggi, in un’età in cui ormai c’è troppo da leggere e il nuovo ha poco o nulla che possa paragonarsi con le grandi correnti unitarie del passato (il mio giudizio qui è sia assiologico sia di fatto, e non solo la postmodernità dovrebbe secondo me assecondare questo modello…). Con questa raccolta di brevi scritti, Leon Battista Alberti si rende moderno, gustoso per chi dai libri cerca immediatezza, profondità e al contempo bellezza. 
Certo, se l’assenza di ogni dottrinarietà e in parte la polemica nei confronti della cultura libresca sono manifesti dell’Umanesimo e del Rinascimento, sogni, allegorie, aloni superstiziosi, favole, racconti, utilizzati per rappresentare il proprio pensiero, legano ancora lo scrittore alla tradizione medievale. I trattatelli morali, a imitazione degli scritti di Luciano di Samosata, sono pungenti e carichi di ironia. Il loro scopo è la ricerca del diletto e della serenità quali condizioni possibili dell'uomo. Gli strumenti per raggiungere questi stati sono la cultura, la curiosità, l'accettazione della misera condizione umana. In tutto questo profondo umanesimo, che si traduce nella fiducia della cultura e del sapere, e che vede nell’uomo di lettere un ruolo chiave, si legge un sostrato intimamente pessimistico. La non inconfessata sfiducia negli uomini e nella vanità della vita, una non tanta celata misoginia, si equilibrano però con un sottile relativismo, un farmacologico epicureismo, che alla fine esaltano la vita contemplativa e la virtù.
Così come le vicende familiari sono ricordate con amarezza, e sono i brani più belli, i dialoghi tra Lepido (lo stesso frizzante Alberti) e Libripeta (l’ignorante venditore di libri), ma anche tra le diverse divinità dell’Olimpo, le varie Fortune, Fato, Necessità ecc., sono vivaci e graffianti. Eppure, non sono poche le pagine soporifere, imbevute di gretto medievalismo, che irritano e annoiano…

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