"Il razzo si levava nella fredda mattina invernale e creava l'estate a ogni respiro dei suoi possenti ugelli di scarico. Il razzo faceva i climi, le stagioni, e l'estate fu per un breve istante sopra la terra..."
Romanzo di fantascienza - o raccolta di racconti molti dei quali legati tra loro -, le "Cronache" di Bradbury fanno pensare. Non solo permettono di riflettere sulla natura del racconto di fantascienza (a quanto pare, Bradbury ha in qualche modo rivoluzionato questo genere letterario), ma anche e soprattutto perché ci pone di fronte, direi filosoficamente, al confronto con noi stessi e gli altri. Il pianeta Marte, infatti, inizialmente ostile e difficile (non dissimile nelle sue città, nella sua lingua, nella composizione chimica dell'atmosfera, nella natura a quelle terrestri) è colonizzato dagli uomini lentamente e a fatica. E l'inevitabilmente contatto con altri luoghi e altre civiltà propone nuovi quesiti sulla natura umana e sulla diversità. Gli uomini, che sulla Terra nel frattempo stanno scatenando una guerra atomica, sfruttano il pianeta rosso con gli stessi criteri con cui hanno costruito la civiltà sulla Terra. Marte, che poteva essere un posto dove vivere un'altra possibilità, un'occasione nuova da sfruttare, acquista via via le sembianze di un'altra frastornata Terra. Spicca quindi il desiderio di gloria degli uomini, la loro intollerabile follia. I colonizzatori sembrano poco disposti ad accettare i confini dettati dalla natura e dalla bellezza, dalla differenza ovvia con un luogo e con abitanti di cui poco conoscono. I pochi marziani descritti, e la loro cultura, sono armonizzati perfettamente con la natura. Una civiltà che ha saputo convivere con il proprio pianeta e che ne ha accettati i limiti. Questa nuova visione proposta dai marziani, di fronte alla grettezza degli uomini, il relativismo culturale suggerito quindi dietro le pagine, è il messaggio che lo scrittore americano in fondo vuole lasciarci.
Malgrado il pessimismo che aleggia nelle pagine, alla fine, seppur nella malinconia della guerra e della distruzione, una qualche forma di ottimismo è possibile leggervi. I buoni propositi espressi nell'ultimo capitolo, difatti, fanno sperare in una differente e più "umana" epoca post-diluviana.
Un accenno allo stile. Le riuscite descrizioni dei luoghi e delle emozioni, frammentate da efficaci dialoghi, fanno da contrasto alle quasi assenti rappresentazioni, e sta qui la rivoluzione di cui si accennava prima, della tecnologia fantascientifica che un ingenuo lettore potrebbe aspettarsi. Spesso però le storie sono poco dense e suggestive, a tratti prevedibili, anche se a dire il vero non mancano momenti di spiccata ironia, come quando i terrestri appena atterrati su Marte pretendono una festa di benvenuto nell'indifferenza totale dei marziani. Alcuni episodi mi ricordano un "Pianeta delle scimmie" ante litteram...
Una brevissima postilla su una singola storia: "Usher II". Certuni temi di questo racconto, ispirato dal celeberrimo racconto di Poe, "Il crollo della Casa Usher", annunciano il successivo, e non solo filosoficamente ben più avvincente, "Fahrenheit 451".
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