Siamo in Italia, durante la prima guerra mondiale. La scelta di una simile situazione, già di per sé cospicua di elementi di meditazione (e si potrebbero ricordare altri titoli, altri capolavori con la stessa ambientazione...), sarebbe capace d’incuriosire e indurre a pensare alla riuscita della storia. Eppure leggiamo la semplice cronaca di un’esperienza personale, di un amore personale, che se ha qualcosa di universalizzabile è la distanza abissale tra una letteratura americana, stantia e sempliciotta, e una letteratura europea, profonda e davvero ricercata. Uno stile per nulla avvincente, il più delle volte banale; un racconto che infastidisce, il più delle volte scaduto; un messaggio, se ne ha uno e in potenza potrebbe averne di importantissimi, poco maturo. I dialoghi, molti, sovente sono banalissimi; mai una riflessione che trascenda l'ordine dei singoli fatti narrati, mai una generalizzazione, un’espressione intima sulla guerra, sulla paura, sull'uomo, sull'amore. Leggiamo descrizioni poverissime nel lessico, tantissime insopportabili ripetizioni. I primi incontri tra il protagonista e Catherine e i loro dialoghi sono a dir poco nauseanti e infantili. Gli unici momenti divertenti si possono setacciare nelle descrizioni sbeffeggianti dei gerarchi italiani…
Ma il romanzo, a onor del vero, non è sempre così immeritevole. Dopo la convalescenza, le pagine dedicate al nuovo rientro sul fronte iniziano a essere più riflessive e godibili. La descrizione della ritirata dopo la sconfitta di Caporetto, finalmente, pone spunti di riflessione sulla vita, sulla morte, sulla guerra; e la lettura, per quanto mi riguarda, si fa meno fastidiosa e noiosa: almeno il racconto si fa più avventuroso. Quest'ultima parte, insieme e soprattutto al tragico finale, seppur senza grandi guizzi emotivi, m’induce, ma solo un poco, a ricredermi.
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