Günther Anders, in un’intervista del 1979 a Matthias Greffrath, riassume, tra l'altro, il cuore del suo pensiero, l’atteggiamento apocalittico come forma di responsabilità. Anders non è un profeta che annuncia la fine per spaventare le masse, ma un filosofo che invita a non abbassare la guardia. Auschwitz e Hiroshima, i due simboli del XX secolo, hanno mostrato di cosa siamo capaci, e sarebbe da ciechi illudersi che tutto sia tornato normale. Il piccolo volume è una porta d’accesso preziosa al mondo andersiano. Qui il filosofo si racconta; i ricordi dell’infanzia, gli studi con Husserl e Heidegger, il matrimonio con Hannah Arendt, le fughe forzate dal nazismo, le amicizie e le polemiche con Bloch e Brecht. È un libro che unisce biografia e pensiero, restituendo un Anders più intimo e allo stesso tempo più urgente.
L’intervista del 1985 con Fritz J. Raddatz, inclusa nel volume, è forse il momento più interessante. Raddatz incalza Anders, lo provoca, cerca di far emergere le contraddizioni di un pensatore che ha fatto dell’apocalisse il proprio tema centrale. Anders, con la consueta lucidità, difende la sua posizione; non si tratta di predicare il disastro per gusto del catastrofismo, ma di coltivare un senso di allarme etico, per evitare il peggio.
Un libro che ci invita a chiedersi se siamo davvero meno ciechi di allora. La sua voce resta scomoda, disturbante, ma necessaria, ci ricorda che la speranza non è un automatismo, ma un lavoro quotidiano per impedire che il peggio accada davvero...