Nel suo saggio, l'autore affronta uno dei nodi più scottanti del Novecento, ovvero il rapporto tra uomo e tecnica. Prima passa in rassegna le riflessioni di diversi pensatori del secolo (da Musil a Mannheim, da Spengler a Heidegger, da Jünger a Jonas fino a Gehlen), per poi concentrare l’attenzione su Günther Anders, probabilmente il più radicale e visionario tra loro. Al centro della filosofia andersiana c’è quello che lui chiama dislivello prometeico, lo squilibrio tra la potenza delle macchine (che sembrano sempre più perfette e affidabili) e la fragilità dell’uomo, incapace di stare al passo. Da questo squilibrio nasce la vergogna prometeica, ossia il disagio di sentirsi moralmente e praticamente inferiori alle proprie stesse creazioni. È il destino dell’uomo antiquato, che assiste impotente a una lenta disfatta della propria centralità. Anders, però, non si limita alla diagnosi. Per lui l’intellettuale ha il dovere di assumere un ruolo attivo, intervenendo con forza nel dibattito pubblico. Ecco perché scrive al figlio di Eichmann, denunciando l’eredità morale del nazismo, ed esprime solidarietà a Claude Eatherly, il pilota che partecipò ai bombardamenti atomici e che visse tormentato dal senso di colpa. Qui emerge il profilo di un filosofo militante, capace di opporsi al nichilismo e di cercare una forma di resistenza etica. Il saggio mette in evidenza anche la scansione delle tre grandi rivoluzioni della tecnica: dapprima le macchine furono impiegate per la produzione, poi la logica produttiva si estese a ogni sfera sociale, fino ad arrivare alla terza fase, in cui l’uomo stesso viene sostituito dalle macchine e scopre di poter diventare l’artefice della propria distruzione. È qui che la tecnica si impone come vero soggetto della storia, relegando l’uomo in secondo piano. Da questa consapevolezza deriva quello che Anders definisce principio di disperazione: l’uomo contemporaneo, prigioniero delle strutture politiche ed economiche che lo vincolano, non può più immaginare rivoluzioni emancipative, ma soltanto prendere coscienza del rischio apocalittico. L’unica forma di resistenza possibile è imparare ad avere paura; una paura vigile, non paralizzante, che diventa paradossalmente la condizione necessaria per poter sopravvivere al futuro.
È questa la lezione più attuale di Anders, imparare a temere non come segno di debolezza, ma come atto di lucidità. Oggi, la sua voce torna a ricordarci che non c’è progresso tecnico senza responsabilità, e che solo una coscienza vigile può salvarci dal diventare, ancora, antiquati.
Un piccolo volume che è sintesi veloce, ma ben costruita, del pensiero di Günther Anders, capace di mettere in luce con chiarezza i nodi principali della sua filosofia senza perdersi in eccessive complicazioni.

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