Secondo il filosofo francese, la Recherche andrebbe letta come un'opera che guarda i segni (semioticamente parlando) che vivono intorno a noi. Non c'è solo il tema della memoria in Proust e nella sua opera, c'è anche un'ossessione verso la decifrazione dei segni presenti nel mondo. Questi ultimi possono essere volontari (del linguaggio, della famiglia, delle classi sociali, dell'amore), e anche involontari (del corpo, degli oggetti che rimandano a qualcos'altro come le madeleine). I segni da decifrare sono quelli della vacua e frivola mondanità, delle menzogne dolorose dell'amore, delle qualità sensibili, dell'essenziale arte in grado di decodificare e trasformare tutti gli altri. Fulmini violenti, casuali, che costringono solo dopo l'intelligenza a codificarli. La Recherche in fondo è la ricerca della verità, una verità ovviamente condizionata dal tempo. Essa è tale nel tempo e questa si manifesta involontariamente. È lei che ci costringe a pensarla; non può essere un metodo o una decisione volontaria a trovarla. Proust (che ha un dono naturale, la sensibilità, il mezzo con cui si possono cogliere i segni, il mondo come cosa da tradurre in significato, il mondo come geroglifico) pensa ed elabora, secondo Deleuze, perché costretto dai segni che la verità gli lancia violentemente contro, in una madeleine, nell'inciampo di un lastricato, nel rumore di un cucchiaino.
Per Deleuze, quindi, il capolavoro proustiano è un romanzo che guarda al futuro attraverso un'evoluzione che lo stesso Proust vive e racconta. Il narratore-detective, infatti, cresce, apprende, decodifica il mondo al fine di diventare quello che è, ovvero uno scrittore che sa cogliere nell'arte il significato più profondo dell'esistenza e della verità. È lui a scoprire che i segni della mondanità che tanto lo hanno affascinato sono vacui, così come quelli dell'amore sono illusorie. Se l'essenza dell'amore è nella serie che porta le leggi della menzogna ai segreti di Sodoma e Gomorra; il vuoto, la stupidità e l'oblio sono l'essenza della mondanità. Solo i segni dell'arte portano al di là dell'illusione, all'essenza del tempo. Nell'arte, la verità si manifesta con violenza e sfugge alle codifiche spazio-temporali e causali dell'intelligenza. L'arte, schopenhauerianamente, è il coltello che squarcia il velo di Maya, il muro dell'illusione, della rappresentazione sensibile. I segni dell'arte sono superiore agli altri perché sono immateriali, rimandano a una dimensione platonicamente più profonda e spirituale, all'Unità e all'Essenza. E così la stessa Recherche, opera d'arte anch'essa ricolma di segni, produce effetti sul lettore, il quale, come il narratore, può cogliere le manifestazioni della verità nel libro, ma anche dentro di sé.
La seconda parte, meno organica e coerente della prima, ci mostra il Proust ebraico che si contrappone al filosofo ebreo; Gerusalemme contro Atene. Uno scontro in cui sensibilità e intelligenza, pathos e logos, sono nemiche (ma sarà vero che nella Recherche la coppia sia antinomica e non di alleanza o tutt'al più un movimento dialettico?). Interessante notare che la complessità dell'opera proustiana dipenda dalla molteplicità dei livelli, dalla frammentarietà dell'universo che non è possibile unificare con la logica, ma solo con l'arte. La Recherche, quindi, diviene uno strumento in grado di decifrare i segni e la complessità del mondo. Ma è anche una macchina, un meccanismo complesso che produce verità. Nel processo di analogia, infatti, tipico della descrizione proustiana, si passa dall'impressione involontaria di un segno a un'interpretazione da cui si produce un altro senso, una legge.
In un saggio imprescindibile per conoscere l'opera di Proust e fonte di ispirazione per molti studiosi, l'analisi di Deleuze rimane ancorata, secondo me, a una visione eccessivamente platonizzata, eccessivamente metafisica che non riesce a comprendere fino in fondo la molteplicità degli sguardi dello scrittore francese che, spesso, sconfinano in atteggiamenti che si riducono alla semplice realtà materiale.
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