Un promettente scrittore, non ancora immerso nelle luci della ribalta, soffriva di una malattia mortale. Non erano né l’angoscia né la disperazione intuite da Kierkegaard a perseguitarlo, bensì una maledizione colta nel momento stesso in cui scrisse ingenuamente il primo libro, una raccolta di scritti polemici sulla religione cristiana e non solo. Questo talentoso autore, fino ad allora incapace di ottenere un consenso per un’eventuale pubblicazione, aveva attirato su di sé l’anatema più terrificante che un narratore possa sopportare: era obbligato da una forza invisibile a scrivere incessantemente senza nemmeno una pausa, pena la morte o, nelle migliori delle ipotesi, l’oblio assoluto. In verità gli era concesso il riposo notturno, a patto che il sonno lo cogliesse mentre era intento a scrivere; ma, come è facile intuire, il pensiero di quel limite poco chiaro e ambiguo non lo rassicurava, e accadeva, alle volte, che non si addormentava affatto per dei giorni e delle notti intere. La sua donna, una ragazza dai capelli color tramonto, mossi nel modo in cui le onde del mare si sfiorano con lo zefiro di luglio, era fedelmente sempre vicino a lui. Stava continuamente lì, nello studio del ragazzo, del suo scrittore preferito, pronta ad esaudire qualunque ovvia necessità. Gli preparava da mangiare, lo lavava e lo vestiva, lo copriva con la coperta quando si addormentava, lo accarezzava tra i capelli nei momenti smisurati di sconforto; insomma lo amava. Dal canto suo, la esaltava nei fogli che vergava in una quantità impressionante, non esisteva altra musa, altra ispirazione più efficace. C’erano tuttavia, ed in realtà erano predominanti, lunghissime ore ininterrotte di assoluto vuoto, e in quei frangenti non poteva interrompere la scrittura, rischiava la pena già descritta. E così si abbandonava nelle pagine a sconfinati flussi di coscienza. Esprimeva istintivamente la rabbia contro la maledizione e, a sua volta, scatenava altrettante dannazioni addosso alla maledizione stessa, rasentando a tratti il parossismo della pazzia. In certi momenti, nel mentre la penna continuava a rigare pagine e pagine traboccanti urla e tuoni, meditava persino il suicidio, pensando di privarsi della scrittura. Eppure erano le parole stesse ad abbandonare tali propositi. L’incanto lo assoggettava; il piacere ineffabile capace di persuaderlo da qualsivoglia sospensione di giudizio, il pensiero medesimo di sussistere con le parole e per tramite delle parole era come esistere in decine, centinaia di vite insieme, era come vivere nell’Assoluto ed essere al contempo l’Assoluto… Dio. E godeva, godeva imparando a vivere quella vita resa possibile dall’inchiostro e dalla carta, dalle idee e dalle avventure, dai vaniloqui e dagli sproloqui. Un giorno però accadde l’imprevisto che segnò la sua vita. Astenendosi da un preannuncio palese, la biro, con la quale scriveva da pochi giorni ancora, terminò l’inchiostro, e la sua donna, la fedele ragazza ma ormai stanca di una cosiffatta vita, non aveva appositamente procurato di che sostituirla. Fu in uno sguardo di panico che lo scrittore dannato fissò gli occhi di lei, e dopo morì.
Settembre 2005
"Ipotesi di romanzo" dalle pretese postmoderne che mostra chiari segni di ingenuità stilistiche, ma che conserva una buona inventiva.
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