Presentazione


Presentazione

Questo spazio è dedicato agli appunti, alle briciole di recensione irrazionali, che colgo, da lettore appassionato e spesso rapsodico, nei miei viaggi verso la lentezza e la riflessione. Briciole di recensione irrazionali dunque.

Briciole perché sono brevi, a-sistemiche, frammentarie, come un certo spirito moderno pretende. Non sono delle vere recensioni. Queste hanno uno schema e una forma ben precisa, mentre i miei sono più che altro appunti colti sul momento, associazioni d’idee, giudizi dettati dalle impressioni di un istante, da una predisposizione d'animo subitaneo, da un fischio di treno... E perciò li definisco irrazionali. Perché sfuggono da un qualsiasi schema predefinito, perché sono intermittenti, perché nella scelta di un libro, per via di una congenita voracità, spesso non seguo linee e percorsi definiti dalle letture precedenti, ma mi lascio trasportare dagli ammiccamenti o dalle smorfie di sfida che un libro sulla mensola della libreria mi lancia.

È un modo insomma di coltivare, di giocare, di prendere vanamente in giro la memoria, per conservare, catalogare e archiviare frammenti di ricordi e suggestioni che un giorno, magari, potranno farmi sorridere e, perché no, commuovere.

16 lug 2025

L’uomo sul ponte — Günther Anders (Diario - 1959)

“Dall'altro lato del fiume si vedevano migliaia di persone lungo la riva, che guardavano in silenzio, come noi, la processione sull'acqua. Come se quella che passava lentamente sotto i loro occhi, trascinata dalla corrente, non fosse una flottiglia di lampade, ma di anime defunte. Da altri punti della riva il vento portava brani di recitazione, fino a molte cantilene per volta. Messe funebri, probabilmente. Ah, non siamo noi ad aver bisogno di questi accenti! A sentire queste messe non sono mai quelli che ne avrebbero più bisogno. Altri ascoltatori dovrebbero essere qui, e lascerei loro volentieri il mio posto”.


Nel 1958 Anders si reca in Giappone, visitando Hiroshima e Nagasaki, tredici anni dopo la catastrofe. Quel che ne viene fuori non è un semplice reportage, né un diario di viaggio nel senso tradizionale; è un documento filosofico, politico, umano. Uno sguardo che buca la superficie e va dritto al cuore del problema: la nostra incapacità di essere all’altezza del mondo che abbiamo creato. Hiroshima e Nagasaki non sono solo luoghi del disastro, sono simboli permanenti dell’abominio umano, della nostra capacità (tutta contemporanea) di sfruttare la tecnologia non per vivere meglio, ma per annientarci con efficienza. Il libro non è solo riflessione astratta, tutt'altro, è fatto anche di incontri, volti, cerimonie, racconti di sopravvissuti, dialoghi, frammenti di umanità ferita. Il filosofo parla con chi ha vissuto l’orrore, partecipa a commemorazioni, ascolta, domanda, registra, e nel frattempo pensa. Riflette ad alta voce, spesso in modo amaro, ma sempre lucidissimo. A emergere è una proposta filosofica radicale: occorre imparare a immaginare l'inimmaginabile, se vogliamo almeno provare a prevenirlo. Perché il nostro problema, oggi, non è tanto sapere che qualcosa può accadere, ma sentirlo, dargli corpo, farlo diventare parte del nostro mondo affettivo e morale.

A chiudere il volume troviamo le Tesi sull’età atomica (1960), uno scritto breve ma bruciante, improvvisato dopo un dibattito pubblico. Qui Anders condensa i nodi morali e politici della condizione atomica; l'autonomia dell’apparato tecnico, l’obsolescenza dell’essere umano, la sproporzione crescente tra ciò che possiamo fare e ciò che possiamo immaginare. Viviamo in un mondo che può finire, ma facciamo finta di niente. 

Ciò che impressiona è la sua capacità di cogliere, ben prima di tanti altri, il passaggio epocale in cui siamo ancora immersi. Non viviamo più semplicemente in un mondo con la bomba atomica, ma dopo la bomba. In un tempo finale che però non si chiude, un’era sospesa in cui convivono (paradossalmente) la possibilità della fine e l’indifferenza quotidiana.

Un libro per chi vuole pensare a ciò che è stato e a ciò che potrebbe essere, e a chi, soprattutto, non vuole smettere di lottare contro ciò che abbiamo reso possibile e contro l’indifferenza. Un libro che si legge come un pugno nello stomaco, e che rimane lì, a fare male, anche dopo la lettura.

9 lug 2025

L'ultima vittima di Hiroshima - Günther Anders – Claude Eatherly (Lettere – 1961)

“C'è da stupirsi che uomini costretti dal loro conformismo e dalla loro schiavitù morale a sostenere l'irreprensibilità della Sua azione, e a considerare quindi patologico il Suo stato di coscienza, che uomini che muovono da premesse così bugiarde ottengano dalle loro cure risultati così poco brillanti? Posso immaginare (e La prego di correggermi se sbaglio) con quanta incredulità e diffidenza, con quanta repulsione Lei consideri quegli uomini, che prendono sul serio solo la Sua reazione, e non la Sua azione”


Che il filosofo tedesco fosse uno dei pensatori più radicali del Novecento non è una novità. Eppure, in questo volume aggiunge qualcosa di profondamente umano: un carteggio tra il filosofo e Claude Eatherly, il pilota americano che volò sopra Hiroshima pochi minuti prima che la bomba atomica cancellasse tutto. Non si tratta solo di una corrispondenza privata, ma di un documento politico, filosofico ed esistenziale. Lettere che nascono da una sintonia inaspettata, un riconoscimento reciproco: da un lato un uomo devastato dal peso delle sue azioni, dall'altro un filosofo convinto che l'unico modo per contrastare l'orrore sia guardarvi dentro fino in fondo.

Anders riconosce in Eatherly non il classico carnefice (come è stato Eichmann), ma un simbolo tragico della nostra epoca, l'epoca in cui l'agire tecnico ha rotto ogni legame con la responsabilità morale. Questo non vuol dire che sia una difesa o un'assoluzione, è piuttosto comprensione. Eatherly non ha mai sganciato la bomba (pilotava un aereo ricognitore in veste di meteorologo) ma ha visto ciò che non si poteva vedere e, da allora, non ha più avuto pace. Inizia a sabotare banche, a farsi arrestare, si autodenuncia per reati minori, come se volesse punirsi. Finisce in un ospedale psichiatrico, bollato come pazzo perché incapace di dimenticare quello che tutti, in patria, hanno fretta di rimuovere. È in quel momento (e qui sta uno degli aspetti più toccanti del libro) che il filosofo non si limita a scrivere, ma si espone in prima persona. Gli invia soldi, lo mette in contatto con avvocati, organizza raccolte fondi, scrive articoli per la stampa internazionale; vuole che Eatherly non venga isolato, che la sua colpa non venga silenziata con la camicia di forza, come accade troppo spesso ai testimoni scomodi. Il cuore del libro è l'invito di Anders a scrivere un'autobiografia. Non come esercizio narcisistico, ma come gesto politico e filosofico, trasformare il turbamento individuale in memoria collettiva per cercare di rompere il muro dell'indifferenza. Eatherly accetta, a fatica, ma lo fa. Le sue lettere sono piene di smarrimento, ma anche di consapevolezza. È come se sapesse che, scrivendo, non potrà redimersi; ma potrà almeno trasmettere un'allerta, una memoria tossica. Anders lo accompagna in questo percorso: a tratti lo scuote, lo incalza; altre volte lo consola, lo comprende. È un dialogo tra due uomini feriti (in modo diverso), ma accomunati dalla stessa intuizione: che l'era atomica è irreversibile, ma non per questo dobbiamo cedere alla disperazione.

Questo carteggio ha l'obiettivo di contrastare ogni tentativo di riarmo nucleare, ogni discorso che riduce la bomba a "arma come le altre", ogni deriva tecnocratica che rimuove le conseguenze umane delle decisioni politiche. Il pacifismo che ne risulta non è ingenuo né utopico, è l'unica forma possibile di lucidità. Il libro, così, si trasforma in un manifesto. Non ideologico, ma radicale nel senso più profondo: nel dolore, nella vergogna, nella solidarietà. Perché se anche Eatherly è una vittima di Hiroshima, allora è nostro compito ascoltare la sua voce prima che venga sommersa dal rumore del tempo e delle guerre.

7 lug 2025

Etica dell'intelligenza artificiale - Luciano Floridi (Saggio - 2022)

"Con un classico esempio che ho usato più volte, un telefono cellulare può battere quasi chiunque a scacchi, pur essendo intelligente come un tostapane. In altre parole, l'IA segna il divorzio senza precedenti tra la capacità di portare a termine compiti o risolvere problemi con successo in vista di un dato obiettivo e il bisogno di essere intelligenti per farlo. Questo riuscito divorzio è diventato possibile solo negli ultimi anni, grazie a gigantesche quantità di dati, strumenti statistici molto sofisticati, enorme potenza di calcolo e alla trasformazione dei nostri contesti di vita in luoghi sempre più adatti all'IA (avvolti intorno all'IA). Quanto più viviamo nell'infosfera e onlife, tanto più condividiamo le nostre realtà quotidiane con forme di agire ingegnerizzate, e tanto più l'IA può affrontare un numero crescente di problemi e compiti. Il limite dell'IA non è il cielo, ma l'ingegno umano".


Che cos’è l’intelligenza artificiale? È davvero “intelligente”? E, soprattutto, che responsabilità abbiamo noi nel modo in cui si sviluppa e si applica? Luciano Floridi, uno dei filosofi italiani più attivi nel campo dell’etica digitale, affronta queste domande in un testo più concettuale che tecnico.

Per il filosofo, l’IA è una forma di azione potentissima, ma non intelligente. E qui arriva subito la provocazione: con l’intelligenza artificiale, si rompe l’antico legame tra la capacità di agire e l’intelligenza che la guida. La macchina agisce, ma non pensa. L’uomo, al contrario, pensa, ma non sempre agisce con la stessa precisione o velocità. La rivoluzione digitale ha reso questa frattura non solo possibile, ma strutturale; oggi costruiamo ambienti (l’infosfera) che sembrano pensati per l’IA, e non più per l’essere umano. Tuttavia, Floridi non si lascia andare a facili allarmismi. Non serve temere l’IA come una minaccia esterna o come una futura Skynet in versione hollywoodiana. Floridi liquida come fantascienza l’idea di macchine superintelligenti che prenderanno il sopravvento sull’umanità. Per lui, il vero rischio non sono le macchine, ma siamo sempre noi. I pericoli nascono non da ciò che l’IA è, ma da come noi scegliamo di usarla. Il nostro obiettivo, quindi, è il dovere di indirizzarla, far sì che il suo sviluppo sia al servizio del bene sociale. E per farlo serve la filosofia, serve l’etica. Il cuore del libro sta tutto qui: l’etica come bussola per orientare una trasformazione epocale. L’approccio proposto è preventivo, che riprende quattro principi della bioetica classica (beneficenza, non maleficenza, autonomia, giustizia) aggiungendone uno nuovo, pensato su misura per il digitale: l’esplicabilità. Un concetto che unisce trasparenza e responsabilità; sapere come funziona un sistema, e chi risponde delle sue azioni. Il saggio tocca anche i rischi pratici legati all’uso distorto dell’IA: dalle frodi finanziarie al traffico illecito, fino ai crimini contro la persona. Eppure l’autore non dimentica l’altro lato della medaglia, le immense potenzialità sociali che l’IA può offrire, se ben progettata, ben normata, ben compresa. 

Un libro necessario, che invita a ripensare il nostro rapporto con la tecnica senza cadere né nel catastrofismo né nel tecnolatrismo. Perché se l’intelligenza artificiale non è davvero “intelligente”, lo siamo noi (o almeno, dovremmo esserlo). Il volume resta comunque un saggio impegnativo, non sempre scorrevole né accattivante, soprattutto per chi non ha dimestichezza con il linguaggio filosofico. Ma vale la fatica, perché obbliga a pensare prima di accettare (o temere) ciò che ci circonda.


5 lug 2025

Noi figli di Eichmann - Günther Anders (Saggio - 1964)

"Lei sa che nelle carni delle vittime di Suo padre, non appena entrati nel lager, a mo' di marchio del mostruoso venivano incisi dei numeri. Anche Lei si porta con sé - per il fatto che ciò che ha dovuto subire è troppo grande per Lei e supera ogni possibile immaginazione - un simile marchio del mostruoso: il numero SEIMILIONEUNO. E anche se questo numero resta invisibile e non è stato inciso nella Sua carne ma soltanto nel Suo destino; tuttavia il Suo numero non vale meno dei numeri dei sei milioni che sono stati bruciati, né vale meno di quelli che ancora oggi si possono vedere sul braccio degli scampati"


Ci sono libri che non cercano lettori: cercano testimoni. È il caso di questa lettera, che non è stata scritta per informare o commuovere, ma per svegliare. Il filosofo lo fa rivolgendosi a Klaus Eichmann, figlio del gerarca nazista Adolf Eichmann (uno dei principali responsabili dello sterminio degli ebrei, il burocrate che organizzò la “soluzione finale”) ma in realtà parla a noi: figli e nipoti di un’epoca che non ha ancora fatto davvero i conti con se stessa. Il messaggio è chiaro e scomodo: non basta essere nati dopo quella mostruosità per sentirsi assolti. Se Eichmann ha obbedito senza pensare, noi rischiamo ogni giorno di fare lo stesso. In modo più silenzioso, più sofisticato, ma non per questo meno pericoloso. Viviamo in un mondo in cui le decisioni si eseguono premendo un pulsante, senza vedere il volto dell’altro. È la tecnica che ci deresponsabilizza; è l’efficienza che ci disumanizza. Non serve essere mostri per partecipare al male: basta essere ingranaggi. Obbedienti, funzionali, automatici. È questo che rende Eichmann spaventoso: la sua normalità. La sua banalità, come dirà Hannah Arendt. Ma Anders non accusa: chiama alla responsabilità. Denuncia la neutralità morale di chi si limita a dissociarsi, senza mai interrogarsi. Essere, anche noi, figli di Eichmann significa vivere in un mondo che può ancora produrre Eichmann. Ma significa anche avere la possibilità e il dovere di fare diversamente.

Il volume si chiude con una seconda lettera, scritta venticinque anni dopo la prima, che non aveva mai ricevuto risposta. Stavolta, Anders esprime una preoccupazione ancora più profonda: il riemergere del negazionismo e dell’antisemitismo, figli di quella stessa indifferenza che caratterizza i figli di Eichmann.

Un testo breve, spietato, urgente.

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