"Per un malinteso inesplicabile l'esistenza è stata dichiarata sacra, non solo non lo è, ma anzi vale nella misura in cui ci si adopera a disfarsene. Tutt'al più è un accidente - un accidente che ognuno, piano piano, converte in fatalità. Quando si sa con che cosa si ha a che fare, c'è da arrossire per essere ad essa così attaccati, e nonostante ciò attaccati le siamo grazie a un lungo e insensibile processo che porta anche i più avveduti a prenderla sul serio".
L'idea della creazione, di questa creazione, è imbarazzante. È insostenibile che il creatore di siffatta scandalosa creatura, l'uomo, possa essere un dio buono. Per ciò il dio che ha creato l'universo non può che essere maledetto, infelice, cattivo, funesto appunto. Il bene è apatico, chiuso in se stesso, autosufficiente, e non avrebbe avuto bisogno di creare; il male, invece, è movimento, dinamismo, intraprendenza, bisognoso di crearne di nuovo, di creare l’universo e l’uomo. Da qui l'invito di Cioran a non generare più, tanto, purtroppo e inesorabilmente, qualcuno riuscirà sempre a incatenarsi alla stoltezza e il rischio (o l'augurio) dell'estinzione sarà superato.
Le riflessioni del filosofo apolide sono dedicate alla definizione del creatore. Le sue speculazioni, però, non nascono solo da ciò che si può facilmente osservare, dal male che regge il mondo, ma anche dalla sua condizione esistenziale, la condizione sua e dell'uomo. La descrizione di un uomo che è propenso al male, che non ha un posto ben definito nella sua esistenza, che sfida un creatore a sua volta indefinito, indefinibile e per nulla onnipotente. Dinanzi a questo male, a questo dolore, a questa vita assetata, la scelta della morte apparirebbe come una sorgente dissetante. Il capitolo dedicato al suicidio (a me pare quello dei tentativi dello stesso Cioran) è il più notturno, il più profondo, forse il più vivo, il più gnostico, il più metafisico, il più orientale. L’elogio della morte, dunque, come soluzione e liberazione che fa da contraltare al disastro della generazione, della nascita, della vita.
Quasi feurbachianamente, Cioran, studiando il male del mondo e accusando Dio (il Dio onnipotente dei monoteismi, sinonimo di intolleranza, tanto da essere nel suo nome l'artefice di feroci religioni che non lasciano spazio al nuovo) analizza se stesso e l'uomo. Dalla teologia all’antropologia dunque.
Un libro che pone domande che dovrebbero lasciarci svegli la notte, un libro che mira al nirvana, all'assenza di ogni cosa, dove l'uomo è silenzio e nulla. Un libro sulla nostra condizione anche, sulle nostre paure di conoscere e capire quanto insignificanti siamo; per aprire gli occhi, restare svegli, e poi ritornare a chiuderli e lasciarci dominare dagli eventi e dalla storia.
Un libro feroce, funesto, per spiriti attenti e duri; bellissimo.
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