Scritto in prima persona dalla protagonista, Susanna s’impone per creatività, fantasia e senso dell'eccesso. Ne viene fuori un romanzo il cui senso ultimo, a me sembra, sia nel contrasto, nel gioco a nascondersi tra il sentimento della solitudine, della noia e della monotonia e la lotta che ci sta dietro per sconfiggerle. Tra la pascaliana infinitezza dell'uomo e la sua miserrima finitudine. E Susanna avverte, in questo duello, un significato profondo che anche una mente ancora non corrotta, sebbene colta, possa cogliere. L'approdo sulla riva dell'isola di militari uccisi, ad esempio, con il loro odore di guerra sulla pelle, contrasta con la smaniosa semplicità di Susanna: la stupidità dalla guerra si trova di fronte la donna che ha solamente la sua immaginazione, che possiede solamente l'universo intero...
Nel complesso, le riflessioni spontanee sulla finitudine dell'uomo, sulla memoria, su un Dio che resta sempre buono, sono considerevoli e stuzzicanti. Ed è soprattutto per mezzo dello stile che lo scrittore ce ne mostra lo spessore, come il riflesso in uno specchio o in una pozzanghera d'acqua piovana. Lo stile, dicevamo, colpisce per ricchezza e ludicità (ma ci sarà lo zampino burattinaio del traduttore?), per i giochi di contrasti, per gli esuberanti paradossi, per le bellissime metafore e similitudini; si avverte un'innocente, ma non troppa, tensione verso l'eccesso. Un po' prolisso e generoso di superflui particolari, Giraudoux si dilunga nella storia su dettagli che se fossero stati omessi nulla sarebbe cambiato nell'economia del racconto. Il recupero e il ritorno in Francia, nel finale, deludono per prevedibilità e semplicità; persino lo stile diviene meno denso.
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