La storia non è complessa. Goljadkin, dopo essersi presentato con tutte le sue manie da un medico, dopo una disturbante notte di ballo, in preda al tormento, terribilmente, si ritrova di fronte un altro se stesso, identico in tutto e per tutto; un sosia appunto. Seguiranno altri incontri. Costretti a lavorare insieme, dopo un primo approccio amichevole, il sosia si rivelerà un approfittatore e uno spregevole personaggio. Ma soltanto il nostro eroe, angosciato, vede come suo identico l'uomo del suo terrore. Gli altri personaggi, pur vedendolo, colgono di uguale solo il nome e una certa somiglianza. Lo scontro quindi diventa inevitabile, ma ad avere la peggio è sempre il primo Goljadkin. Umiliato, offeso, deriso, scavalcato dalla prepotenza del sosia, il protagonista non riesce a reagire se non manifestando assillanti ripetizioni gestuali e ossessive manie. Il pensiero dell’eroe è espresso nei dettagli della sua insicurezza, paranoica, che pensa spesso anche alle più piccole facezie. E anche se la narrazione è in terza persona, lunghi momenti di prima persona ne caratterizzano la figura di Goljadkin. Il racconto si fa angosciante; i due si rincorrono, si odiano, e se anche si trovano innanzi alla possibilità di confrontarsi una volta per tutte, c'è sempre qualcosa (spesso architettato dal sosia) che intralcia, che li separa, e il primo è di continuo costretto a inseguire. Fino alla fine, fino a quando Goljadkin, invitato con uno stratagemma a un ballo, si ritroverà a fare i conti con la sua pazzia.
Se è da ammirare il modo in cui l'analisi della tortuosa psicologia di Goljadkin sia caratterizzata dalle ossessioni, dalle dimenticanze, dai lapsus (che interessano anche gli altri personaggi), il racconto, così ridondante, a tratti estenuante, appare meno accattivante degli altri capolavori dostoevskiani.
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