La prospettiva del libro si fa interessante: un Somaro con la S maiuscola, divenuto poi professore, si autoanalizza, e tra ricordi e riflessioni intelligentemente dosate si racconta per amore, l’amore di chi ha creduto nei propri allievi. Le due esperienze, quella di somaro e di insegnante, si fondono dunque, e la polpa che ne viene fuori è densa di ironia e di una selvaggia delicatezza che ti catturano e ti fanno pensare.
Pennac (Pennacchioni nel libro) - un Tom Sawyer contemporaneo, che sogna durante le ore scolastiche, che cerca l'avventura, che sente il bisogno della libertà, del riscatto, che avverte il suo disagio di essere in un mondo che non comprende -, nel raccontare la sua carriera di somaro, intrufola momenti della sua futura carriera da insegnante. E così le pagine scintillano di consigli, di digressioni sulla pedagogia, sulla passione, sul ruolo degli insegnati stessi, dei maestri. Ma come ci si riscatta da somaro? Scoprendo la passione, sembra suggerirci il professor Pennac. Le letture, i professori appassionati che non si limitano a seguire i programmi, i primi amori adolescenziali...
I capitoli, come piacciono a me, brevissimi, si concludono quasi sempre con una nota di struggente ironia o di ardente dolcezza o di melanconici ricordi. Solo raramente lo stile nelle descrizioni decade: singhiozzante, eccessivamente veloce, sincopato, che non sopporto granché. Ma quando il racconto diventa dialogo, quando diventa riflessione la punteggiatura si scioglie e il pensiero e l'ironia si espandono fino ai limiti del fascino.
Chissà se anch'io, tra vent'anni magari, avrò l'onore di essere chiamato per strada da un ex studente con una citazione di una mia lontana lezione dimenticata.
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