Su Marcel Proust si è detto tutto (o quasi). Così la tendenza, oggi, è quella di raccontare il rapporto che il lettore ha, dall'accademico al lettore comune, con l'opera e la biografia del genio parigino. Diviso in due parti, la prima si può inserire all'interno di questo schema interpretativo. È, infatti, la presa d'atto di un momento particolare, di un momento epocale della vita di un ricercatore che per tutta la vita si è confrontato con l'immensa opera proustiana. È una confessione che segue la cifra stilistica e riflessiva che va da Agostino a Proust stesso passando per Montaigne; è un'autobiografia che l'autore racconta. Ovvero la sua storia con la Recherche di Proust, il cui primo volume ricevette come regalo di Natale durante l'ultimo anno di liceo. Perplesso inizialmente (lo stile tentacolare di Proust, si sa, la prima volta è spiazzante), ne rimane affascinato in modo inesorabile dopo. Un incontro felice, dunque, che lo scrittore romano ha coltivato intellettualmente per anni. Proust che diventa un veleno che non ha antidoti insomma, che si diffonde in ogni cellula e ti cambia la vita per sempre (argomenti e dinamiche che i proustiani riconoscono facilmente, che io riconosco). Ma nel suo racconto, nell'evoluzione della sua passione, c'è anche uno studioso che quasi (sebbene non sia possibile) prova a curarsi da quella malattia. Si avverte, infatti, quasi una forma di disincanto che prefigura, almeno sembra, una cesura nella sua vita di studioso e appassionato lettore proustiano. Con l'occhio dello scienziato, Piperno tratteggia un Proust un po' cinico, che non crede nell'amore perché non ne ha colto il senso, che ha come scopo esistenziale quello di essere ricordato anche dopo la morte. Un dialogo con se stesso alla ricerca di una verità che nel tempo si è evoluta, trasformata, che è diventata, da passione viscerale quale era, puro affetto filiale. E così Proust è diventato per Piperno il metro di giudizio per affrontare se stesso e anche gli altri autori incontrati durante la sua vita di lettore-studioso.
La seconda parte, difatti, è dedicata al confronto, per analogia o per contrasto, con altri autori. Alla maniera parallela di Plutarco, o alla maniera di Cioran, sono esercizi di ammirazione. Leggiamo quindi della comparazione tra Montaigne e Proust. Entrambi hanno vissuto un'infanzia felice, spensierata, di affetto genitoriale; hanno discendenza mista (ebrea e cattolica); sono scettici; si sono isolati per la loro opera e hanno analizzato le contraddizioni umane.
Leggiamo di Proust e Céline. Sebbene antitetici (tutti ricordano i giudizi sprezzanti di quest'ultimo nei confronti dell'autore della Recherche), hanno entrambi avuto coscienza dell'importanza del loro stile. C'è la malattia, l'idea tragica della vita, hanno dato voce all'odio contro gli ebrei.
Leggiamo di Proust e Nabokov. Nonostante quest'ultimo non sia del tutto attento alla magia del tono proustiano, condivide con il francese l'infanzia felice e il ritorno con la memoria a quell'epoca privilegiata. Una memoria, però, diversa: incostante e imprecisa quella del francese, precisa e perfetta quella del russo.
Leggiamo di Proust e Balzac. Stilisticamente differenti, ma con una spregiudicatezza compositiva e architettonica unica.
Leggiamo di Proust e Dante. Vicini per il tema della morte in loro così ossessiva, per il loro bisogno di salvezza, per il loro misticismo artistico, per la vendicativa legge del contrappasso.
Leggiamo di Proust e Woolf, forse il saggio più bello. Entrambi snob, omosessuali, che mettono al centro della loro riflessione esistenziale l'arte, anziché la vita vissuta.
Infine leggiamo di Proust e Roth, anche lui sedotto dal tempo ritrovato.
Nonostante tutto, nonostante quel senso di distacco e di presa di coscienza, con una penna seducente ma anche carica di inchiostro avvelenato, si legge tutta la passione che Piperno continua ad avere (e non potrebbe essere altrimenti) verso Marcel Proust.
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