Uno scrittore instancabile di lettere, ma non di speranze, Emil Cioran, con la sua penna tagliente e rassegnata, scruta la storia e la cultura del Novecento senza concedere sconti. Il verdetto è noto: tutto è precario, tutto è condannato. Un secolo che si crede al culmine della civiltà ma che, agli occhi del filosofo romeno, è solo il teatro della sua disfatta.
Nella corrispondenza con Beckett, Jünger, Marcel, Wiesel, Yourcenar, Zambrano (e non solo), Cioran non smette di aggiornarsi sulle attività editoriali dei suoi interlocutori. Eppure, qui il suo stile muta: niente aforismi fulminanti, niente crudele ironia. Le lettere sono rapide, a volte puramente di cortesia. Allo stesso tempo Cioran, anche nell'epistolario, resta fedele a se stesso: scettico, contraddittorio, inevitabilmente segnato dalla vergogna di esistere. Se il Novecento è la grande illusione del progresso, Cioran ne è il più feroce disilluso. La sua scrittura è una lotta contro la speranza, vista come l'ultima illusione di un'umanità incapace di accettare il nulla. La malinconia non è un difetto dell'anima, ma una lucida consapevolezza della fragilità dell'esistenza. Il filosofo non offre vie di fuga: la sua filosofia non promette salvezza, ma uno sguardo radicale sul vuoto. Eppure, proprio in questa assenza di speranza si cela una strana forma di liberazione. Accettare il nulla significa, paradossalmente, liberarsi dall'ossessione del senso e dalla tirannia delle certezze. La vita, spogliata di significati imposti, diventa un esercizio di pura presenza.
Il suo pensiero non è una semplice negazione, ma un invito a guardare l'abisso con occhi aperti. Non per vincerlo, ma per riconoscerlo come parte di noi. In questo, Cioran è il poeta dell'inutile, il filosofo del disincanto, un maestro di un'esistenza vissuta senza illusioni, ma con una consapevolezza acuta della bellezza effimera del vivere.
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