"La parola parla, in primo luogo, al proprio doppio; e dal doppio vengono parole alla parola, e ciascuna di queste parole ha ombra e doppio. Dunque la parola tende ad una assenza di limiti, ad una infinità, una disponibilità che non può avere conclusione; e di fatto non ha alcuna possibile conclusione; si disegna come un itinerario che non conduce in alcun posto, e la sua assenza di meta fa parte della sua definizione. La parola, parlando al proprio doppio, occupa uno spazio mentale, disegna un disegno, e dunque si appropria di una dimensione".
Che valore ha la letteratura? Davvero deve interpretare il mondo? Deve esprimere un'idea? O è solo menzogna, delirio e falsa costruzione? La paradossale riflessione manganelliana si propone di dimostrare quanto la parola scritta e letta sia, in fin dei conti, solo un ulteriore strumento per mentire. Inizia considerando il tempo in cui la letteratura non c'era, mentre, però, il mondo e gli uomini vivevano comunque nel loro falso ordine. Poi la nascita di questo mostro, della parola scritta, e quindi la nascita di scrittori, lettori, recensori, redattori di epitaffi, editori, insomma tutti coloro che hanno un rapporto diretto con i libri, tutti della stessa stirpe di dementi, incapaci di accorgersi della loro inutile falsità… Ecco perché lo scritto recita un sottotitolo tanto provocatorio quanto illuminante: "del lettore e dello scrittore considerati come dementi". In questa prospettiva, il mondo, l'universo tutto è menzogna, così come gli uomini che ne parlano e soprattutto che ne scrivono. Grazie alla letteratura impariamo a mentire. E il bisogno di scrivere e di leggere è malattia, necessario sì, ma pur sempre malattia; ha come unico scopo quello di disorientare e angosciare, di cogliere il principio doppio e antitetico delle cose, la coincidenza degli opposti, in cui tutto e nulla stanno a braccetto. La parola in sé è duplice: è tenebra e luce insieme. E non è un caso che Manganelli citi più volte i miti di Dioniso ossimorico e Apollo luminoso, o Narciso indifferente ed Eco disgraziata. Lo stemma e l'ombra sono la stessa parola, luce e ombra, parole e silenzi diventano sinonimi; ogni voce è bilanciata dal suo opposto e tutto si regge in un vorticoso e abissale fluire.
I trentuno brevi capitoli (con titoli che seguono la numerazione ma ciascuno con un carattere grafico diverso) formano un mostro multiforme. Sono tante voci dello stesso fool shakespeariano, dello stesso giullare impertinente che si diverte a prenderci in giro (come suggerisce lo stesso autore nell'autorisvolto al termine dei capitoli; quasi una meta-metaletteratura...).
Voluttuoso e dissacrante, con uno stile prezioso, fatto di continue allitterazioni e di lunghi elenchi, che tracima di barocchismo, è un libro in cui tutto scorre in modo provocatorio, antitetico, ipotetico, avversativo. È un libro letterario, metaletterario, ricco di teoria e di retorica, non facile, ma ingegnoso e delirante.
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