Presentazione


Presentazione

Questo spazio è dedicato agli appunti, alle briciole di recensione irrazionali, che colgo, da lettore appassionato e spesso rapsodico, nei miei viaggi verso la lentezza e la riflessione. Briciole di recensione irrazionali dunque.

Briciole perché sono brevi, a-sistemiche, frammentarie, come un certo spirito moderno pretende. Non sono delle vere recensioni. Queste hanno uno schema e una forma ben precisa, mentre i miei sono più che altro appunti colti sul momento, associazioni d’idee, giudizi dettati dalle impressioni di un istante, da una predisposizione d'animo subitaneo, da un fischio di treno... E perciò li definisco irrazionali. Perché sfuggono da un qualsiasi schema predefinito, perché sono intermittenti, perché nella scelta di un libro, per via di una congenita voracità, spesso non seguo linee e percorsi definiti dalle letture precedenti, ma mi lascio trasportare dagli ammiccamenti o dalle smorfie di sfida che un libro sulla mensola della libreria mi lancia.

È un modo insomma di coltivare, di giocare, di prendere vanamente in giro la memoria, per conservare, catalogare e archiviare frammenti di ricordi e suggestioni che un giorno, magari, potranno farmi sorridere e, perché no, commuovere.

9 mag 2015

Diceria dell'untore - Gesualdo Bufalino (Romanzo - 1981)

"Bevvi, prima che le sue labbra, l'afa e l'odore del suo morbo, l'accolsi dentro i polmoni con un giubilo e un grido taciuto, lo stesso che accompagna, mentre cala, il pugno del matricida. E una volontà di distruggere, empia e allegra, mi formicolava nelle mani, mentre cercavo gli anfratti e le dune magre delle sue membra".

Non sono abituato alla rilettura, ma certi libri, certi autori, sebbene siano sempre in me, sebbene il tempo scorra e c'è un immenso da leggere ancora, devono essere, per forza di cose, riletti, riposseduti. E Bufalino è il primo tra questi; e ogni volta, inevitabilmente, mi regala qualcosa di nuovo. Ricordo la prima volta che lo lessi, il fulmine che mi colpì dietro la fronte e dietro il petto; ricordo il profumo barocco delle sue parole; ricordo il primo libro che lessi, il suo primo romanzo, e tutte le volte che l’ho riletto nelle diverse edizioni… 
Questo romanzo, straordinario, viscerale, vertiginoso, è il racconto di un uomo malato, nel fisico e nell'animo, che cerca l’illusione nell'amore verso una donna, anch'essa malata, dentro e fuori. Il tema dominante è dunque la morte, onnipresente, in ogni singola parola, in ogni singola goccia d'inchiostro. Ma il nero del lutto si contrappone alla luce accecante di una terra, la Sicilia, e di una stagione, l'estate, che nei colpi di sole ama l'enfasi e l'eccesso. Un ossimoro, dunque. Il silenzio della morte e la musica del sole, il lutto e la luce. Persino nel nome della protagonista, Marta, ricco di luce se vogliamo, si cela musicalmente il suo opposto, Morte. In questo gioco di specchi e di rimandi, di doppi e di equivoci, leggiamo parole di sogno, presentati come su un palcoscenico della memoria, in cui finzione e realtà si fondono in un gioco mirabile di parole barocche, senza le quali tutto crollerebbe. È un viaggio dunque, verso le profondità dell'Eros e del Thanatos, da cui nessuno dei personaggi può uscirne indenne.
Il racconto inizia con un sogno, si sviluppa con descrizioni che servono a calare il lettore in un ambiente di malattia e di fiele, che non preannuncia nulla di nuovo, nessuna salvezza. Poi c'è lei, Marta, l'amore e l'illusione del protagonista, la ragazza dai mille segreti. Siamo un anno dopo la seconda guerra mondiale, in un sanatorio siciliano, un'isola lontana e incantata. Qui un malato di tisi, sopravvissuto, infettato però dalla morte, racconta delle velleità della salvezza, le effimere passioni che illudono, contagiando con le sue menzogne e le sue dicerie di lutto gli stessi lettori, con una struttura circolare che non lascia spazio alla vita, semmai al sogno, alla notte e di certo alla morte. In quel luogo di riflessione il narratore e protagonista, sopravvissuto ancora per poco, incontra un medico, un frate, un bambino, un futuro suicida... E poi, come si scriveva, Marta, una nuova Morella, una nuova Fosca. Giovane, ancora bella ma malata di una malattia che le si è radicata nel cuore e nella memoria. Per scelta, per rassegnazione, senza passione, senza slanci emotivi si abbandona a un sogno, a un preludio di morte. E come tutti i sogni, presto finiscono su un letto e su un lenzuolo che diventeranno catafalco e sudario... quindi Eros e Thanatos che s’incontrano in una pagina dal tono antico, forte, intenso che ti entra fin dentro le ossa. Un Totentanz, insomma, una danza della morte, una collezione privata di morti, un museo di corpi inanimati, di fantasmi, di ombre.
Un libro di note, da leggere a voce alta, un poema il cui scopo è la vertigine, con i suoi rimandi e le sue citazioni condensate in frasi magiche dal sapore insieme antico e postmoderno. Un romanzo di formazione scritto da un anziano; un romanzo didascalico che cerca di educare tolstoianamente all’agonia e alla morte; troppo raffinato, eccessivo se vogliamo; una scrittura elegantissima, sublime, ricercata fino all'estremo per costruire una struttura di emozioni; studiato nei minimi dettagli al solo scopo di provare a dare un senso al flusso corrotto della vita; una pietra miliare della letteratura italiana del secondo dopoguerra. Codici e piani di lettura si sovrappongono fino a esplodere nella coerenza dell'antitesi, tra una macchia di sangue su un fazzoletto e i bacilli segnanti le labbra di Adelmo, tra un ballo su un palcoscenico improvvisato e una stanza d'albergo che diventerà luogo di delitto e camera mortuaria. Una partita a scacchi con il lettore, con i personaggi e con una spaventosa vittoria senza onori, dopo un sacrificio di Donna già annunciato sin dalle prime pagine, straziante.

Per molti motivi, se è possibile sceglierne uno, il mio libro preferito, da leggere e rileggere, da imparare a memoria. Una boccata d'ossigeno, uno sciroppo di tristezza dopo tanta inguaribile acqua...

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